Il dolore invisibile di chi non è riuscita ad allattare

Il dolore invisibile di chi non è riuscita ad allattare

Oggi devo ringraziare una mamma, che mi ha scritto la sua storia pregandomi di pubblicarla, e permettendomi così di fare delle considerazioni su un argomento molto delicato.

Ecco la sua lettera:

“Cara Antonella, sono una giovane mamma di una bimba di 10 mesi. Vedo sempre i tuoi post in cui si parla delle stupidaggini dette dalle persone alle mamme che allattano a lungo. Però non ho mai visto un post che parlasse del disagio delle mamme che hanno allattato poco o non hanno potuto allattare. Io sono riuscita a allattare la mia bambina solo 2 mesi, scarsi e mai esclusivamente, per stress, forse depressione post partum, trauma post violenza ostetrica. Lo stress, i pianti frequenti, mi hanno fatto cedere all’utilizzo delle aggiunte fornite dall’ospedale. Nessun’ostetrica o operatore mi è stato di aiuto, ed è stato così che da allattamento misto sono passata a allattamento artificiale. Le uniche parole che mi sono state dette sono: “tanto la bambina è cresciuta bene” “ma se non avevi latte!”. Però a 10 mesi dalla nascita di mia figlia sento la mancanza della nostra vicinanza, del nutrimento unico che avrei potuto offrirle”.

Una storia troppo frequente

Troppo spesso succede che una mamma veda fallire prematuramente il suo progetto di allattamento.

I primi giorni, anzi, le prime ore sono molto delicate e buona parte del successo di un allattamento nasce da lì. Due aspetti fondamentali per un allattamento che decolla bene sono poter effettuare una prima poppata e il contatto pelle a pelle nella prima ora dopo la nascita, e poter poi avere il bambino con sé nella stanza 24 ore su 24, in modo da poterlo portare al seno appena manifesta i primi segni di voler poppare.

Altro aspetto fondamentale è permettere al bambino di apprendere con la pratica la suzione al seno senza subire l’interferenza causata da ciucci e tettarelle, che possono modificare la tecnica di suzione del bambino e molto spesso portano a una difficoltà successiva a effettuare correttamente la suzione al seno.

Purtroppo nei nostri punti nascita le interferenze sono fin troppo frequenti e le conoscenze e competenze riguardo alla fisiologia dell’allattamento materno sono spesso scarse; e anche successivamente, al ritorno a casa, consigli errati e scarso sostegno portano verso un rapido declino dell’allattamento al seno.

Quindi no, cara mamma, non è per colpa tua, cioè a causa dello stress che il tuo latte si è esaurito, ma per gli ostacoli e le interferenze subite, che molto probabilmente hanno causato una difficoltà nel bambino di succhiare correttamente. Se a tutto questo si aggiunge un parto traumatico e la solitudine e depressione che spesso ne segue, è più che comprensibile che prevalga lo scoraggiamento, specie se intorno a te non hai avuto sostegno, comprensione e informazioni adeguate a proteggere e sostenere te e il tuo bambino.

La mamma e il bambino sono perfettamente attrezzati per dare avvio e proseguire l’allattamento, ma la diade deve ritrovarsi, scoprirsi, ha bisogno di un luogo tranquillo dove riprendersi insieme dalla fatica del parto, ha bisogno di contatto pelle a pelle, di intimità, di silenzio, di ritmi lenti e di gesti delicati.

La mamma ha bisogno di ascolto, di rispetto per i suoi sentimenti e bisogni, e di riconoscimento per tutto quello che fa per il suo bambino. Il bambino ha bisogno di calma, contenimento, del corpo caldo della sua mamma.

 Ovunque si parla dei benefici dell’allattamento, ma tutto questo parlare è inutile se non è accompagnato da un’attenzione vera e rispettosa della mamma e del bambino, da informazioni corrette e da un’assistenza discreta, che sappia aiutare mamma e bambino ad esprimere pienamente il loro potenziale, senza ostacoli ed interferenze.

Un’esaltazione generica dell’allattamento non accompagnata da tutto questo diventa solo una beffa, un’ulteriore fonte di rammarico e di delusione per la mamma, che facilmente si assume la responsabilità del fallimento, spesso senza avere mai, in realtà, ricevuto le informazioni chiave per capire cosa veramente è successo e perché il suo allattamento non è riuscito.

Un dispiacere ignorato

Poiché nella nostra cultura non si dà all’allattamento al seno il giusto valore, spesso il grandissimo dispiacere della mamma che non è riuscita ad allattare viene minimizzato o ignorato. Questo atteggiamento di scarsa considerazione per i sentimenti della mamma, quando il suo parto o allattamento non va come progettato, è diffuso e ricorrente: molto spesso anche oggi la donna sperimenta un parto traumatico, e anche questo può lasciare un segno profondo, una ferita che stenta a rimarginarsi; anche perché la società intorno sollecita la donna a lasciarsi alle spalle le brutte esperienze e concentrarsi solo sul presente.

“Di che ti lamenti?  L’importante è che te e il tuo bambino stiate bene. Non sei riuscita ad allattarlo? Ma non ne fare un dramma! Tu sei cresciuta benissimo lo stesso anche con l’artificiale. Non te ne fare una malattia, se il latte non c’è che ci vuoi fare?”

In queste frasi c’è tutta l’ignoranza della fisiologia dell’allattamento, ma anche la superficialità e l’imbarazzo di fronte a un profondo sentimento di perdita vissuto dalla mamma, la fretta di prendere le distanze da una storia di fallimento che riguarda non la mamma soltanto, ma tutta la comunità intorno, che non è stata capace di aiutarla. Rendere invisibile il dolore del fallimento, negarlo, rende le cose più facili a tutti: tranne che alla mamma.

Cosa significa veramente dare sostegno?

Quando si promuove l’allattamento al seno o si parla in sua difesa, a volte la mamma che non è riuscita ad allattare si sente ancora una volta ignorata o squalificata, come se fosse una mamma “di serie B”. La scarsa attenzione ai suoi sentimenti e bisogni, che ha subito nel momento in cui lottava per il suo allattamento, viene rinfocolata e rivissuta anche quando in realtà nessuno la sta giudicando negativamente.

Ci tengo a precisare che come professionista Io sono qui a sostegno di tutte le mamme: non esistono mamme di serie A o di serie B, ogni mamma in ogni momento fa il suo meglio per il suo bambino e per se stessa, con le informazioni e gli strumenti che ha a disposizione.

Purtroppo esistono però approcci, assistenza, atteggiamenti culturali, situazioni sociali intorno alla mamma che possono essere di serie B, perché non tutte le mamme ricevono le informazioni, il sostegno, l’incoraggiamento e il rispetto di cui hanno bisogno per avviare con successo il loro allattamento.

Ma cosa significa dare veramente sostegno? Sostenere non significa incoraggiare a parole, dare ragione, fare “il tifo” per la mamma e lodare i suoi sforzi, se non è accompagnato da quelle informazioni rilevanti che le serviranno per superare le difficoltà. Non significa nemmeno consolare, giustificare, rassicurare: il sostegno non è una stampella, e l’allattamento, o la relazione fra mamma e bambino, non è come un elettrodomestico da riparare. Stiamo parlando di persone, una adulta e una piccolissima, fatte di emozioni, bisogni, paure e dotate di sensibilità e pensieri propri. Il vero sostegno fornisce gli strumenti e l’incoraggiamento per rafforzare le risorse personali ed esprimere pienamente il proprio potenziale, senza forzare e senza sostituirsi alla persona aiutata.

Il sostegno è scevro da giudizio, e quindi è a prescindere dal risultato finale, che può essere diverso da ciò che l’operatore ritiene come la soluzione migliore per la mamma. A volte significa anche affiancare la mamma quando sceglie di rinunciare al progetto di allattare e deve adattarsi a ricostruire con il bambino una nuova intimità, fatta di gesti diversi da quello di porgere il seno.

Un ruolo delicato che non è fatto di prescrizioni o critiche ma di accoglienza, comprensione e tanto, tanto ascolto.

Kintsugi: quando riparare significa rendere più prezioso

L’arte giapponese del Kintsugi risale al 15° secolo, e consiste nel riparare gli oggetti frantumati con un mastice impregnato di polvere d’oro. In questo modo le fratture di un vaso o di una statuina risaldata appariranno come preziose venature, rendendo l’oggetto ancora più bello ed evidenziando, piuttosto che nascondere, la rottura subita.

Riparare può e deve essere molto di più che “mettere una pezza”: è un processo che porta a una nuova comprensione della ferita vissuta, la metabolizza e la rende un punto di forza.

Molto spesso come consulente professionale in allattamento materno mi trovo a raccogliere i cocci di allattamenti partiti male e che procedono con difficoltà, a causa di consigli errati e di interferenze pesanti avvenute già nei primissimi giorni dopo il parto. Non è facile per una neomamma mantenersi ferma sulla decisione di allattare quando il bambino piange, le poppate sono difficili, a volte dolorose, la crescita non è ottimale e tutti intorno continuano a criticare la determinazione materna a proteggere l’allattamento, suggerendo la facile soluzione della formula.

E pensare che a volte basta poco: modificare la gestione delle poppate, cambiare una posizione, un modo di sostenere il seno o di accostarvi il bambino. A volte per recuperare basta dare l’eventuale aggiunta con metodi diversi dalla tettarella, che tanto interferisce con la suzione corretta.

Altre volte c’è bisogno di lavorare più a lungo per aiutare il bambino a riscoprire una tecnica adeguata di suzione, e per stimolare il corpo materno a produrre più latte, magari con l’aiuto temporaneo di un tiralatte. Non è giusto che mamma e bambino debbano lavorare così duramente per riparare a danni causati dal fatto che, semplicemente, nelle prime ore e giorni essi non sono stati lasciati in pace a conoscersi e ad apprendere l’arte dell’allattamento senza essere separati e subire interferenze. Ma quando questo succede, è bello sapere che molte volte si può recuperare. È un percorso possibile, spesso efficace, ma impegnativo che richiede tempo, fatica e avrebbe bisogno di un aiuto concreto, sostegno, e soprattutto riconoscimento degli sforzi che la mamma fa per proteggere la preziosa relazione di allattamento.

E cosa ne è della mamma che nonostante tutti i suoi sforzi non riesce a recuperare l’allattamento? Certe volte il bambino semplicemente non recupera l’abilità a succhiare correttamente, oppure la produzione di latte è stata compromessa così precocemente da venire recuperata solo in parte, oppure il lavoro necessario per ripristinare un allattamento esclusivo supera le risorse di tempo ed energie della mamma, specialmente se intorno le manca il sostegno pratico ed emotivo. In quei casi la mamma deve spesso subire anche commenti sgradevoli, giudizi negativi sulla sua scarsa “forza di volontà”, deve sentirsi dire che forse il suo corpo è difettoso e incapace di produrre abbastanza nutrimento per il bambino, oppure che è stata “sfortunata”. La rimozione collettiva delle vere cause dei fallimenti in allattamento, fa ricadere tutta la responsabilità sulla donna. Viene quindi esortata a non pensarci più, a minimizzare il suo sacrosanto senso di perdita, come se ignorare una ferita la facesse guarire più in fretta. Ma è proprio nella cura e nell’attenzione che una ferita si può sanare, lasciando forse una cicatrice a ricordo del danno subito, ma permettendo di recuperare la piena integrità del proprio essere.

Minimizzare o ignorare sarebbe come rimettere insieme un vaso rotto alla bell’è meglio, con una colla da quattro soldi, e fingere che non si sia mai rotto.

La vera riparazione, la vera guarigione è invece un kintsugi dell’anima, che accetta il dolore vissuto, guarda senza paura e con amore alle proprie cicatrici, e le colma di polvere d’oro, di una consapevolezza maggiore, rendendole un prezioso punto di forza.

Antonella Sagone, 21 novembre 2020

5 thoughts on “Il dolore invisibile di chi non è riuscita ad allattare”

  1. Giovanna Rossi ha detto:

    Come sempre Antonella Sagone coglie il cuore di ogni situazione con il cuore.
    Grazie.

  2. Sara ha detto:

    Io questa mamma la capisco: io sono riuscita a mantenere l’allattamento “misto” (penso di aver prodotto, al massimo, 60 ml a poppata, ma la media era ed è -ora ha un anno- più bassa di 60). Il trauma inizia dal parto: indotto e dolorosissimo (con tanto di violenza ostetrica: mentre pativo le pene dell’inferno perché avevano tolto il farmaco per diminuire le contrazioni -ne avevo 4 al minuto-, la simpaticona viene a dirmi di smettere di soffiare che sembra che sto per morire, “piuttosto urla” mi ha detto). Dopo due giorni dal parto non avevo ancora la montata e nemmeno il mio compagno a fare la notte con me e ovviamente il calo di peso ha raggiunto il 10% e qui entra in scena un altro simpaticone, il pediatra. Mi dice che dobbiamo fare la giunta e che mi spiegheranno come fare. Fatto sta che la prima giunta me la portano in camera alle 3 di notte, un’infermiera che chiamerò simpaticona n.3: “ehm, come funziona?” dico io, indicando biberon, tettarella e siringa, “eh, scegli te con quale darglielo”. Magnifico. Il giorno dopo ho finalmente visto un’ostetrica che passava per le stanze per aiutare nell’allattamento “la bambina fa due poppate di numero e si addormenta, la stacco, si sveglia, piange e si ricomincia” e allora perde una buona mezzora con me, proviamo tutte lw posizioni possibili finché la bambina non si riaddormenta e mi fa “l’attacco è buono, andrà meglio”.
    Alla dimissione il pediatra di cui sopra mi dice di andare in un centro di allattamento, ci vado e anche lì mi dicono che l’attacco è buono, che la bambina è letargica e proviamo un paio di metodi. Insomma, le ho provate tutte, tranne la DAS penso, e comunque non sono mai riuscita a rendere esclusivo l’allattamento. E dal mondo intorno le solite frasi :“tranquilla che cresce lo stesso” “l’importante è che sta bene” “non ti devi ammalare per questa cosa” ecc.
    Piango ancora per questa cosa, allattarla al seno era una cosa che volevo davvero, perché le fa bene e perché è anche più comodo (l’allattamento misto è un calvario organizzativo, perlomeno lo è stato per me, a tratti). Sarei stata meno stressata, più riposata, più contenta e meno nervosa con mia figlia e il mio compagno (sì, il prezzo lo pagano TUTTI). L’altro giorno ho letto in un commento a un suo post di una mamma che era riuscita a togliere le giu te usando il paracapezzolo e mi sono detta “perché non l’ho provato anche io?!” ed ho pianto. Ancora. Probabilmente per sempre. In qualche modo non riesci mai a perdonartelo.
    La ringrazio per aver dato voce a questa problematica, spero che possa aiutare tante mamme, che nessuna si merita di passare quello che passiamo noi.
    P.s- probabilmente la chiamerò quando sarà l’ora del secondo figlio 🙂

    1. Antonella Sagone ha detto:

      cara Sara, è triste ma raccolgo tante, troppe storie come la tua. Purtroppo nella tua vicenda non hai probabilmente mai incontrato persone abbastanza competenti da aiutarti davvero a recuperare l’allattamento. La maggior parte delle volte, quando un bambino non è efficace a poppare, o causa dolore alla suzione, il motivo risiede in un attacco o una suzione inadeguata, ma pochissimi sono i professionisti competenti a valutare il problema. Nel mio lavoro correggo innumerevoli attacchi e suzioni definiti “perfetti” da molteplici professionisti. Inoltre recuperare un allattamento pieno partendo da un misto è un percorso che va personalizzato e certamente richiede impegno ma soprattutto competenza nell’assistenza. Per tua serenità ti dico che il paracapezzolo quasi mai è una soluzione e va usato solo in rarissimi casi e sotto la guida di un consulente professionale, il più delle volte aggrava la problematica, mentre altre volte il bambino riesce a recuperare l’allattamento NONOSTANTE gli interferenti, compreso il paracapezzolo. Certamente tu hai fatto tutto ciò che potevi in base alle tue risorse, ed è triste che questo impegno non venga riconosciuto e anzi troppo spesso sminuito o addirittura criticato!

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