Lasciarlo piangere: e perché mai?

Lasciarlo piangere: e perché mai?

“Non cedete al pianto del vostro bambino: vi sta cercando di manipolare”. Così vengono disorientati i genitori che, istintivamente, quando il bambino piange sentono che ha bisogno di loro e accorrono per capire cosa non va. Ma secondo alcuni, il pianto è accettabile solo in certi momenti e con certe motivazioni. Alcune teorie “psicologiche” disconnesse dai sentimenti affermano che il pianto sia insomma una forma di ricatto affettivo, che il bambino utilizza per manipolare il genitore e ottenere da lui quello che vuole, e quindi rispondervi è sbagliato, perché si incoraggerebbe il bambino a piangere di nuovo al primo “capriccio”.

Altri arrivano ad affermare in modo contorto che il pianto è un bisogno e va “rispettato”, non facendo nulla per farlo cessare perché sarebbe una violenza nei confronti del bambino che ha necessità di sfogarsi. Ma come può essere? L’idea che possa esistere un pianto senza motivo, o che piangere possa essere un’esigenza fine a se stessa, sono in realtà costrutti artificiosi creati al solo scopo di negare l’evidenza: che il pianto esprime un bisogno e una sofferenza cui si deve dare risposta. Uno splendido articolo di Jan Hunt elenca dieci motivi per cui è bene rispondere al pianto di un bambino. Cito solo una frase: «In qualsiasi circostanza, più una persona è bisognosa di aiuto, più ha bisogno di avere la nostra compassione, attenzione ed assistenza».

Tutte e tre queste cose sono necessarie per una risposta adeguata. Rispondere solo alla causa fisica scatenante del pianto è una soluzione tecnica e senza amore, lo può fare anche un robot. Essere attenti ed empatici senza nello stesso tempo offrire concreta assistenza (ad esempio allattando al seno, abbracciando, aiutando il nostro piccolo a scivolare nel sonno), che senso ha? Essere presenti ma senza farsi coinvolgere, dire al bambino sono qui, ma non coccolarlo, come certi teorici pretendono dai genitori, è una contraddizione in termini, è come dire: siate affettuosamente distaccati… un pericoloso paradosso che rischia di disorientare e invischiare i genitori in una trama di confusione.

Esistono pianti illegittimi?

L’idea che rispondere al pianto possa incoraggiare il bambino a piangere di nuovo nasce dalla segreta convinzione che il pianto sia solo un comportamento fastidioso e senza motivo, da scoraggiare evitando di “premiarlo” con una risposta. Ma in effetti, il punto è: il bambino ha o no diritto di piangere, per manifestare il suo disagio e chiedere aiuto? A sentire certi “esperti”, si direbbe che tutti i pianti siano illegittimi, tranne quelli all’ora dei pasti prefissati dall’adulto. In effetti, se anche rispondere al pianto “premiasse” il bambino e lo incoraggiasse ad usare di nuovo il pianto quando ha bisogno di noi, mi sembra che questo sarebbe del tutto appropriato: il pianto è uno strumento efficace per attirare l’attenzione, ed è giusto che il bambino possa contare su questo segnale, quando altri modi di richiamare l’adulto hanno fallito.

Un altro elemento di riflessione è che il pianto è, spesso, un segnale tardivo di aiuto, che il bambino mette in atto quando i suoi tentativi di comunicare un bisogno in modi più “discreti” non hanno avuto successo. Dunque, ecco che un modo per non rinforzare il pianto in un bambino può essere quello di rispondere prima, ai primi segni di disagio: il bambino allora sarà incoraggiato a utilizzare forme di comunicazione più sottili, e a raffinarle in modo sempre più articolato, invece di ricorrere al suono sgradevole di questa sirena d’allarme naturale di cui è dotato.

Eppure, questa competente risposta dei genitori viene sistematicamente scoraggiata, prospettando terribili conseguenze per la personalità del bambino.

Nonostante gli avvertimenti allarmistici che ricevono, comunque, spesso i genitori disobbediscono ai suggerimenti ricevuti e prendono in braccio il bambino per consolarlo; e dopo, si sentono in colpa, perché è stato loro detto che il bambino sarà rovinato e viziato dalle loro cure se rispondono ai suoi richiami! Altre volte invece si trattengono, bloccati da quei consigli che li esautorano dalle loro competenze, alienandoli dai loro sentimenti e istinti.

Perché gli istinti parlano chiaramente. Un bambino che piange comunica immediatamente un senso di urgenza e fa sorgere un pressante bisogno di intervenire. I genitori che, intimoriti e allarmati dalle nere previsioni di certi “esperti”, si forzano a ignorare il bambino che piange provano profondi sensi di disagio e di angoscia; a volte finiscono anch’essi in lacrime, e sentono questo approccio profondamente innaturale.

Ma quegli esperti che tanto volentieri parlano di ciò che un genitore deve fare quando il bambino piange, raramente si occupano dei sentimenti che suscita il pianto di un bambino; anzi a volte ne parlano solo per deprecarli, per accusare il genitore di debolezza, per esortarlo ad attenersi a una regola data ed a resistere alle emozioni che suscita in lui la disperazione di suo figlio. Possibile che la natura si sia così sbagliata, tanto da mettere nel bambino, senza motivo, un comportamento così fastidioso per sé e per chi gli sta vicino? Cosa spinge tanti “esperti” a squalificare questo meccanismo altamente efficace e messo a punto in milioni di anni di evoluzione?

No all’autarchia emotiva!

Il pianto di un bambino è un argomento “forte”. Che ci tocca nel profondo, perché anche noi siamo stati bambini e abbiamo pianto, o piangiamo ancora adesso a volte. Il pianto è uno dei segnali più drammatici di cui l’essere umano è stato dotato per segnalare uno stato di necessità: è un appello accorato. Poiché siamo una specie sociale, siamo dotati di uno strumento che suscita in modo immediato e intenso una reazione empatica nei nostri simili, perché accorrano ad aiutarci. Probabilmente, in condizioni naturali gli esseri umani, bambini e adulti, hanno pochi motivi per piangere, perché vivono già a stretto contatto gli uni degli altri, e se c’è un problema in genere traspare molto prima che la persona sia così disperata da piangere.

Ma cosa succede nella nostra società? La nostra società teme la semplice verità che siamo affettivamente dipendenti gli uni dagli altri. Vorrebbe che ciascuno potesse vivere in modo emotivamente “autonomo”, senza sentire il bisogno di appoggiarsi e rifugiarsi nel conforto e nell’aiuto del suo prossimo. Si tratta di un delirio di onnipotenza, ma questa autarchia emotiva ci viene proposta, e spesso imposta, fin da bambini. La richiesta di aiuto, conforto e attenzioni del bambino viene vissuta come un attentato a questo isolamento che ognuno di noi è stato abituato a ricercare e difendere. E così si insegna ai bambini a non piangere, a mandare giù il groppo che hanno in gola, e ad arrangiarsi.

Il pianto è un punto di forza, un mezzo molto efficace di comunicazione che ottiene risposte immediate e sostegno. Invece si induce il bambino a vergognarsi della propria “debolezza”… e così lui impara a nascondere il pianto e i bisogni che ci sono dietro. Oppure, semplicemente, i pianti restano inascoltati finché il bambino rinuncia ad utilizzare questo potente strumento innato… perché divenuto inutile. Allora piangere diviene solo uno sconvolgimento fisico, uno stress in più che è meglio risparmiarsi.

Riflettiamo che noi siamo cresciuti in questo tipo di società e di ideologia. Poi chiediamoci perché sentire un bambino piangere ci mette così in agitazione.

Su un certo piano, è un fatto del tutto sano e naturale: noi rispondiamo semplicemente al segnale d’allarme e accorriamo. Non per far “smettere il pianto”, ma per porre rimedio il più in fretta possibile al disagio e all’angoscia che questo segnala. Però la società in cui viviamo considera il pianto un comportamento sbagliato, e dunque il pianto di nostro figlio diviene agli occhi della società il segno che, come genitori, abbiamo fallito nel rendere nostro figlio un individuo “maturo” e “autonomo”. Oppure ci hanno convinti che fra genitori e figli sia tutta una questione di potere, e allora il bambino che piange diventa non più un essere che chiede aiuto proprio a noi e proprio in virtù della sua debolezza e dipendenza da noi, bensì un piccolo despota che vuole “comandarci” o “manipolarci”. Questi pregiudizi ci sono ripetuti così tante volte da non esserci più evidente la loro assurdità.

E che succede poi se noi stessi, quando eravamo a nostra volta bambini, siamo stati condizionati a non dare credito ai nostri pianti? Abbiamo messo tutto sotto una bella pietra pesante, ed ecco che le urla di nostro figlio fanno tornare a galla i nostri dolori e le nostre rabbie represse. Ci sentiamo angosciati e arrabbiati oltre misura… ma qualcosa o qualcuno ci ha insegnato che piangere non funziona, ci ha convinto che piangere è insensato, ci ha fatto dimenticare che dietro un pianto c’è un motivo, un bisogno. E allora, ecco che sentiamo il bisogno che per prima cosa quel grido di dolore smetta!! Così ci diamo da fare a “distrarre” in tutti i modi il bambino. E poi, c’è un altro livello, che può scattare dato che ci è stato inculcato che sarebbe bene cavarsela da soli, e l’aiuto reciproco sarebbe “pericoloso” perché crea dipendenze. Proprio perché a livello inconsapevole riconosciamo il pianto per quello che è, la richiesta di aiuto di chi è bisognoso di noi, il pianto ci causa ansia e vorremmo non sentirlo mai. L’idea che qualcuno dipenda così da noi per il suo benessere è angosciante, una responsabilità grossa, e viene vissuta nella nostra cultura come un vincolo, una trappola, piuttosto che come un elemento di forza a livello di gruppo.

È un bene o no lasciar “sfogare” il pianto?

Per rispondere, chiediamoci, quando interveniamo in risposta al pianto di un bambino: qual è il nostro obiettivo? Andare incontro al bisogno che quel pianto esprime, oppure andare incontro al nostro bisogno di non sentirci lacerati e minacciati dentro dal suo pianto? I bambini in genere segnalano piuttosto chiaramente quello di cui hanno bisogno. Allattarli o prenderli in braccio spesso è sufficiente per placarli, e allora perché dire ai genitori di non farlo, o confonderli con istruzioni vaghe del tipo “prima capire il motivo del pianto e poi rispondere alle cause”? Se la mamma offre il seno al bambino, o le sue braccia, e il bambino non vuole questo bensì ha bisogno di sfogarsi, lo farà capire molto chiaramente! Come al solito, le indicazioni sono complicate solo quando diventano regolette astratte, ma nella concretezza quotidiana le mamme in genere si sanno regolare benissimo, allattando il bambino, abbracciandolo, o invece rispettando la sua rabbia e stando semplicemente vicino… questo è molto diverso dal voler far cessare il pianto “distraendo” il bambino. Distrarre (proporre qualcosa di completamente estraneo alla situazione, scherzare, eccetera) è negare; ma offrire il seno, le braccia e il cuore non è negare, ma consolare, e non c’è nulla di sbagliato in questo.

“Piangere fa bene ai polmoni”, si usa dire a volte. A questo vorrei ribattere con un detto ormai celebre: “Se il pianto fa bene ai polmoni, allora sanguinare fa bene alle vene!” Gli studi delle neuroscienze mostrano che al contrario il pianto è causa di stress e che non è salutare per il sistema nervoso in via di sviluppo del bambino.

Credo che gli “sfoghi” siano un modo sano di ristabilire l’equilibrio rispetto a una precedente situazione patologica. Noi adulti con tanti pianti repressi in gola abbiamo a volte bisogno di sfogarci, tirando fuori ciò che è stato bloccato per tanto tempo. E nello sbloccarsi, questo “qualcosa” può anche esprimersi con il pianto (ma non è il solo modo). Se il bambino ha avuto una nascita traumatica, o una frustrazione troppo grossa, oppure ha un malessere che continua e di fronte al quale noi siamo impotenti (succede, rassegniamoci, non siamo onnipotenti!) e deve sfogarsi, lo farà volentieri piangendo fra le braccia della mamma, ed è sacrosanto che noi abbiamo ben chiaro, in caso di pianti “inconsolabili” come questi, che va bene così, e non significa né che il nostro bambino è “sbagliato”, né che lo siamo noi genitori. Ma per favore, non facciamo confusione, non minacciamo chissà che conseguenze se accorriamo a consolare nostro figlio: facciamo ciò che ci dice l’istinto e il cuore, prendiamolo in braccio, attacchiamolo al seno, e lui si placherà beato fra le nostre braccia. La felicità, è il caso di ricordarlo, non ha mai fatto male a nessuno.

Ulteriori riflessioni sul pianto del bambino e sul suo significato antropologico ed evolutivo possono essere lette in questo articolo.

Se desideri consultare una psicologa o una consulente professionale in allattamento materno riguardo a questi temi, puoi richiedere una consulenza qui.

Antonella Sagone, 7 gennaio 2021

2 thoughts on “Lasciarlo piangere: e perché mai?”

  1. Giulia ha detto:

    Condivido queste considerazioni sul pianto, ho letto cose simili durante la gravidanza e sono state illuminanti. Quasi quarantenne cresciuta con i pregiudizi sul lasciar piangere, ancora adesso continuo ad avere persone intorno che mi dicono “lasciala piangere che poi si abitua”. Ecco, NO, proprio no. Ma la mia bimba, che normalmente non ha bisogno di piangere, piange tanto in auto, tanto da soffocare quasi. E il bisogno è chiarissimo, non ha voglia di stare nell’ovetto, si annoia, vole essere presa in braccio. Mi chiedo come possa migliorare la situazione, escludendo ovviamente di viaggiare con lei in braccio ed escludendo di non poter guidare o viaggiare con lei. 🙁

    1. Antonella Sagone ha detto:

      ciao Giulia, non è facile, è un disagio fisico che molti bambini piccoli hanno e che si risolve col tempo. Tragitti brevi, usare il treno e i mezzi pubblici ecc… e qualche giovamento alcuni genitori l’hanno avuto mettendo uno di quei cuscini anteriori che si mettono davanti al seggiolino, per dare un senso di confort e contatto ventrale al bambino che sta legato sul seggiolino

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