L’allattamento nell’aula del tribunale (parte seconda)

L'allattamento nell'aula del tribunale (parte seconda)

Nella prima parte di questo articolo ho introdotto la problematica che nasce quando una donna che allatta si trova nel mezzo di una causa di separazione e l’allattamento viene tirato in ballo. Questo a volte avviene solo per mettere in cattiva luce la madre, mentre altre volte semplicemente l’esigenza del bambino di poppare al seno viene ignorata, specie se si tratta di un bambino grandicello, e non ne viene tenuto conto nel momento in cui si stabiliscono le modalità di affido condiviso e i periodi che il bambino dovrà trascorrere con il padre.

Purtroppo la conoscenza della fisiologia dell’allattamento è scarsa, manca la consapevolezza dei benefici che comporta un allattamento anche dopo i primi mesi e si continuano a ignorare le numerose linee guida nazionali e internazionali, che raccomandano di proseguire l’allattamento almeno fino a due anni e anche oltre. I pregiudizi fanno sì che l’allattamento, dopo l’introduzione dei cibi solidi, venga ritenuto superfluo quando non addirittura dannoso, e i tentativi della madre di proteggere la relazione di allattamento vengono a volte letti come modi per ostacolare la frequentazione del padre da parte del bambino: un diritto sancito dai nuovi orientamenti in tema di separazione consensuale, che enfatizzano proprio il concetto di bigenitorialità.

Sempre nel precedente articolo ho fornito i riferimenti di una serie di linee guida che ribadiscono l’importanza e la legittimità dell’allattamento come forma privilegiata di nutrizione e di accudimento del bambino anche dopo i primi mesi; e ho suggerito modi per chiarire questi concetti sfatando pregiudizi e colmando lacune spesso presenti nei professionisti che seguono genitori e figli nel percorso di separazione dei coniugi.

In questo secondo articolo vorrei fornire alcune riflessioni e suggerimenti più pratici su come negoziare e gestire le disposizioni dei giudici in tema di periodi di soggiorno del bambino in casa dell’altro genitore.

Bigenitorialità e pernotti

Quando una mamma allatta un bambino oltre l’anno si stabilisce una consuetudine fatta di momenti speciali, in cui il bambino trova non solo nutrimento ma anche conforto e relax fra le braccia della mamma e al suo seno. Le disposizioni del giudice possono venire a frantumare queste consuetudini. La legislazione attuale in tema di minori dà un’enfasi speciale al diritto del bambino a coltivare un legame affettivo e una frequentazione assidua con entrambi i genitori. Questo concetto della bigenitorialità si riflette negli orientamenti in tema di affido condiviso, e c’è un’inversione di tendenza rispetto al passato, in cui si dava quasi per scontato che il bambino fosse affidato alla madre e il padre lo frequentasse saltuariamente. Questo principio generale dovrebbe poi essere applicato con discernimento valutando caso per caso la situazione della coppia genitoriale e i bisogni del minore; ma non sempre questo avviene, in special modo per l’allattamento. Allattare un bambino grande non è considerato affatto un diritto e un’evoluzione naturale della relazione biologica fra madre e figlio, anzi, nella nostra cultura è considerato superfluo, bizzarro e anche morboso e dannoso per lo sviluppo psicoaffettivo. Pertanto il bisogno del bambino di avere accesso al seno materno e di mantenere questa consuetudine in momenti delicati come quello dell’addormentamento o in situazioni di crisi non viene affatto riconosciuto, anzi si tende a pensare che il bisogno parta dalla madre, la quale, nel momento in cui solleva questa problematica, ad esempio quando si cominciano a disporre i pernotti dal padre, viene spesso vista come “ostativa” e la richiesta di rimandare il momento del pernotto lontano dalla casa materna è percepita come un mero pretesto per impedire al bambino di stare con il padre.

Non solo l’allattamento, ma l’intero legame con la mamma, e l’intenso bisogno di connessione con lei, è da tempo combattuto nella nostra cultura, che spinge sempre più ad un’indipendenza tanto prematura quanto forzata. La tendenza emergente nei tribunali per i minori è perciò attualmente quella di rendere sempre più precoci le separazioni dalla madre, disponendo ad esempio i fine-settimana dal padre anche per bambini di pochi mesi, e i periodi di due settimane (consecutive o no) anche per bambini di età inferiore ai tre anni, ad esempio di due anni o due anni e mezzo. Se il bambino è ancora allattato, per la mamma esplode un dramma che non è affatto compreso dagli astanti, spesso nemmeno dall’avvocato di parte, perché allattare dopo i primi mesi viene considerato nella migliore delle ipotesi un vezzo o un di più a cui si può rinunciare senza conseguenze, quando non addirittura con beneficio per l’evoluzione psicologica del bambino.

A questo punto si tende a dar battaglia con in mano le raccomandazioni OMS e le dichiarazioni del Ministero della Salute; ma questo raramente modifica il punto di vista del giudice o della CTU, sia perché i pregiudizi non si scalzano con la ragione, sia perché comunque un bambino di un anno e mezzo può stare senza seno anche diverse ore, come dimostrano tutte le donne che lavorano. Il punto è un altro, e cioè che le separazioni dalla mamma e la frequentazione del padre non devono essere forzate oltre ciò che il bambino è in grado di affrontare nel suo attuale stadio psicoaffettivo: a prescindere se il bambino sia allattato o no. Questo significa che in certi casi il bambino può farcela anche a stare senza la mamma: non è un problema di allattamento, ma maturità affettiva del bambino, e di come viene accudito quando sta con il padre e con i suoi. E lì veniamo al punto, e cioè se il padre è competente e in grado di accudire il figlio, oppure se non è in condizioni di prendersene cura; e se il bambino è in grado di gestire una separazione prolungata dalla mamma in base alla sua maturazione affettiva e alla validità del legame con il padre. Questo è il vero problema, e non è opportuno fare perno sul fatto che è allattato, perché poi si suscitano reazioni basate su pregiudizi e sulla completa ignoranza di cosa sia un allattamento oltre i primi mesi.

Non è vantaggioso quindi opporsi ai periodi di affidamento al padre del bambino, ma solo discuterne la tempistica, le modalità, frequenze e durata in base alla specifica situazione di quel bambino e di quella famiglia.

Quando le disposizioni del giudice non sono modificabili 

La mamma che allatta è giustamente preoccupata quando si prospetta per il suo bambino la disposizione di passare una o più notti con il papà. Non sempre è possibile ridiscutere tali disposizioni e a volte la presa di posizione di giudici e periti è adamantina e non ci sono aperture per una negoziazione. Nonostante la contrarietà, è importante che la mamma riesca a sganciare le sue preoccupazioni dalla questione specifica dell’allattamento, che forse è in realtà l’aspetto più gestibile della faccenda. Molte madri che non sono in questa situazione, ma che per altri motivi (per esempio per lavoro o per una degenza ospedaliera) hanno dovuto separarsi per più giorni dal loro bambino sono riuscite a mantenere l’allattamento, e il bambino, se è abbastanza grande e se ha costruito un attaccamento sicuro con la mamma, riesce a superare l’esperienza di separazione e a recuperare quando torna a casa da lei. I bambini più grandi sanno trovare modi per compensare l’assenza della mamma e del seno, se sono comunque accuditi amorevolmente da persone sensibili ai loro bisogni. Le separazioni non sono mai prive di momenti dolorosi, ma se la mamma ha posto le basi per una solidità affettiva si possono mettere in atto molte risorse emotive ed essere resilienti, e questo è nel potenziale sia della mamma che del bambino allattato.

Nei periodi di separazione la mamma avrà bisogno di tirarsi il latte per prevenire gli ingorghi e mantenere la produzione, e in questo può farsi se necessario affiancare da una Consulente professionale in allattamento materno, in modo che al ricongiungimento con suo figlio potrà recuperare il tempo perso.

Non sto suggerendo alla madre di essere succube di pretese relative al “distaccarsi dal bambino” o svezzare dal seno, si tratta di richieste illegittime e inutili. La mamma può continuare a restare centrata sui suoi obiettivi e lottare per essi, ma adattarsi ai momenti difficili traendone il meglio possibile, senza sottovalutare le risorse che lei e suo figlio possono mettere in atto per superare tali momenti.

L’allattamento non deve diventare il “casus belli”

Bisogna fare attenzione a non far diventare il bambino e il suo allattamento un “casus belli” in cui si finisce col discutere della validità o meno dell’allattamento oltre i primi mesi… occorre riportare il focus sul bambino, i genitori, la loro relazione col proprio figlio o figlia, l’equilibrio psicoaffettivo del bambino e non quello che fa o non fa, dove dorme, quello che mangia o altre questioni generiche.

Dal punto di vista strettamente strategico, come approccio generale, certamente alla mamma possono tornare utili due righe di riferimenti o documentazione sui benefici e sulla legittimità di allattare un bambino grande, tanto per mostrare che allattare oltre i primi mesi in sé è del tutto normale e anzi raccomandato da organismi nazionali e internazionali (i riferimenti sono nella prima parte di questo articolo). Tuttavia questo deve affiancare, e non costituire il nucleo della difesa della donna e del suo bambino. La questione allattamento va tolta dalla ribalta della scena, cioè definita “non rilevante” ai fini di valutare se questa madre sta o meno accudendo bene il bambino. Anche se è paradossale, nelle decisioni che vengono prese in genere troppo spesso si considera questo fatto di continuare ad allattare come una “perversione” materna, o un mero “pretesto”, una scusa per negare al padre il diritto di tenere il bambino con sé la notte.

Il fatto che il bambino sia o no allattato al seno non deve diventare una discriminante per valutare se quel bambino è pronto o meno a passare la notte con suo padre; anche perché i bambini che non si alimentano con latte materno non per questo hanno meno diritto a essere protetti da una separazione prolungata prematura dalla loro mamma! Né quelli allattati hanno meno diritto a passare tempo con il papà, se sono pronti a farlo, anche se ancora vanno a volte al seno della mamma.

Le domande pertinenti quindi non sono se allattare a questa età sia o no “giusto” e “necessario”, ma:

  • questo bambino è accudito adeguatamente, ha un sano sviluppo psicomotorio, un normale equilibrio psicoaffettivo?
  • è emotivamente pronto per una separazione prolungata dalla madre e per passare una notte senza di lei, oppure non è ancora pronto?
  • il padre è adeguato a prendersi cura del bambino anche dal punto di vista emotivo?

Domande a cui si può rispondere con una normale valutazione psicologica, senza bisogno di ricorrere a parametri (come l’essere o no allattati, portati in fascia, spannolinati, tenuti nel lettone, eccetera) che non stanno in nessun manuale dei disturbi psichiatrici e che non sono significativi per valutare il benessere o la salute mentale ed emotiva di un bambino di pochi anni, ma sono pseudo-criteri dettati solamente da pregiudizi culturali.

Fermo restando che allattare è uno degli aspetti importanti di una relazione e dovrebbe essere un motivo in più per invitare alla gradualità nei periodi di distacco dalla madre, purtroppo anche nella mia esperienza spesso diventa un boomerang, perché visto con le lenti colorate del pregiudizio. Una madre che ha subito abusi e violenze in presenza dei figli, e che contesta l’ipotesi di un periodo prolungato dei figli con il partner, ha una sua ragionevole legittimità agli occhi dei legali; ma se in più dichiara di allattare un bambino di due, tre o “peggio” più anni, subito perde credibilità e diviene una pazza fanatica, una madre soffocante, iperprotettiva, che non accetta l’autonomia dei figli, addirittura viene vista lei stessa come abusante. Pur continuando a combattere con tutti i mezzi questi pregiudizi in ambito giuridico, e a diffondere la conoscenza della fisiologia dell’allattamento, dobbiamo ragionare dal punto di vista strategico se è il caso di utilizzare questo argomento per rafforzare la richiesta di non separare i figli dalla mamma, quando sappiamo che viene spesso intesa “a rovescio”.

Di rado conviene dunque giocare la carta dell’allattamento. Riconoscere in astratto l’importanza e la legittimità dell’allattamento “di lunga durata”, come viene definito dal Ministero della Salute, è una causa meritoria, ma non è in sede di battaglie legali per l’affido dei figli che deve aver luogo questa battaglia.

Conclusioni

Resta purtroppo l’amara constatazione che la tendenza attuale sembra essere comunque quella di ignorare i bisogni dei bambini piccoli di non essere separati dalla mamma, a prescindere dall’allattamento, e sempre più spesso si ha notizia di disposizioni di weekend lunghi o persino di settimane di vacanze col padre riguardo a bambini di due anni e mezzo o anche meno.

Sui conflitti in sede di assegnazione dei periodi di tempo da trascorrere con l’altro genitore, si stende l’ombra della PAS, quella mostruosità giuridica che è la teoria della “alienazione parentale”: un concetto aberrante che è stato già bocciato dal punto di vista giuridico e non dovrebbe essere applicato nelle aule di tribunale, ma che purtroppo a volte viene ugualmente utilizzato a discrezione del giudice e dei periti (per una trattazione più ampia di questa problematica, vedere questo articolo).

I punti fermi nell’affiancare una madre che sta affrontando una causa di separazione conflittuale sono dunque i seguenti:

  • i bisogni del bambino devono restare centrali e non bisogna lasciarsi fuorviare su questioni pretestuose, marginali o non pertinenti messe in campo solo per screditare la competenza materna o dirottare l’attenzione da criticità più fondamentali;
  • la mamma va sostenuta ed accompagnata per affrontare la condivisione delle cure del bambino, sganciando questa problematica dalla questione allattamento;
  • la mamma che allatta un bambino in affido condiviso ha bisogno di aiuto professionale per sapere come prevenire ingorghi e mantenere la produzione di latte nei periodi di distacco dal bambino;
  • occorre creare una rete di professionisti competenti e aggiornati sulla fisiologia dell’allattamento, che possano offrire un contributo valido fornendo riferimenti solidi, e affiancando mamma e bambino in questo processo delicato di ridistribuzione delle responsabilità genitoriali;
  • la mamma può trarre grande giovamento inserendosi in una rete di sostegno di pari, cioè gruppi e associazioni di persone che stiano vivendo o abbiano sperimentato la sua situazione, con possibilità di condividere i vissuti e le esperienze.

Allattare in situazioni di affido condiviso può essere una sfida ma non deve significare la fine dell’allattamento. Separarsi e continuare ad allattare si può!

Antonella Sagone, 20 agosto 2021

3 thoughts on “L’allattamento nell’aula del tribunale (parte seconda)”

  1. daniela ha detto:

    Complimenti per l’articolo, molto chiaro e preciso. Ad una mia amica è successa esattamente una delle situazioni da lei descritta (vittima di violenza psicologica da parte del marito, ma sottoposta a una perizia psichiatrica perché continuava ad allattare il figlio di 3 anni).
    Trovo ottimo il suo suggerimento conclusivo, ossia quello di spostare l’attenzione sulla capacità di accudimento da parte del padre, a prescindere dal tipo di alimentazione del bambino. Molte situazioni incresciose si eviterebbero facilmente se solo ci si concentrasse su quale dovrebbe essere il vero obiettivo del giudice, ossia tutelare il benessere del bambino.
    Grazie per il lavoro che svolge quotidianamente, la seguo sempre con interesse.

    1. Antonella Sagone ha detto:

      purtroppo sono situazioni ricorrenti!
      grazie dell’apprezzamento.

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