Parto e nascita: non aggiustare ciò che non è rotto

Parto e nascita: non aggiustare ciò che non è rotto

Il parto è un evento fisiologico, consolidato in milioni di anni di evoluzione, eppure per certi aspetti fragile in quanto la delicata sinfonia di ormoni e reazioni neurali che innesca e conduce il processo del travaglio e del parto può facilmente incepparsi quando si alterano le condizioni ambientali in cui si partorisce, o ci si inserisce sostituendosi alla fisiologia con interventi non necessari.

Quando sopravviene una patologia, naturalmente, è necessario e utile intervenire con l’arte medica; tuttavia spesso tali interventi, ed altri che non hanno alcun fondamento in nessun caso, vengono messi in atto come routine di assistenza alla donna in travaglio in assenza di patologie materne o fetali.

Ecco alcuni interventi che possono snaturare la gravidanza, il parto o la nascita, e allontanarli dalla fisiologia.

Parti indotti “per scadenza”

Negli anni ’80 uscì un’enciclopedia a fascicoli sulla maternità. Comprai il fascicolo relativo alla gravidanza e al parto. L’introduzione suonava così:

Gli antichi Greci sostenevano che la gravidanza durasse da otto a dieci mesi. Oggi, invece, sappiamo che dura 40 settimane.

Quanta presuntuosa certezza! Quanto è ottuso e meccanico l’approccio della nostra epoca, e quanto invece saggio e profondo quello degli Antichi!

La durata della gravidanza non è una cosa decisa dalla mamma, e tanto meno dal medico, ma dal bambino. È la placenta, che è una parte del corpo del bambino (e non della mamma), a scandire i tempi producendo gli ormoni che mantengono e poi terminano la gravidanza dando avvio al travaglio di parto.

Inoltre, così come il ciclo femminile non è della stessa durata per tutte, allo stesso modo la gravidanza tenderà ad essere più lunga nelle donne con un ciclo lungo, e nelle primipare.

Ma da dove arriva dunque questa cifra di 40 settimane? Può sorprendere sapere che fu un botanico, nel XVIII° secolo, a mettere a punto questo metodo di calcolo, approssimato dal calcolo tradizionale biblico di dieci mesi lunari. Però in realtà un mese lunare è di circa 29 giorni, il che porta a una durata totale della gravidanza di circa 42 settimane! E in effetti, oltre la metà delle primipare, se non si interviene a indurre il parto, termina la gravidanza verso questa data.

Le linee guida dell’ACOG (American College of Obstetricians and Gynecologists) definiscono la durata della gravidanza come di 40-42 settimane, e solo successivamente parlano di gravidanza dopo il termine; dopo le 41 settimane si raccomanda semplicemente di monitorare evitando di intervenire ad indurre il parto se la situazione è fisiologica.

Queste indicazioni vengono totalmente disattese. Non si capisce veramente che fretta hanno tutti quanti. Non tutte le gravidanze durano esattamente 40 settimane! Sempre meno margine viene tollerato, e non si contano ormai i parti indotti appena scattate le 40 settimane o addirittura prima! Tanta fiscalità nel conteggiare persino uno o due giorni oltre il termine presunto, quando si sa bene che tale termine è oltretutto solo un’ipotesi, dato che raramente la data del concepimento è certa e che ogni gravidanza è diversa.

Si cerca di indurre il parto o di accelerarne i tempi con mezzi sia meccanici che farmacologici: dallo “scollamento” del collo dell’utero (intervento doloroso spesso praticato senza preavviso e senza nemmeno dirlo alla donna durante la visita vaginale a termine di gravidanza), alla rottura del sacco amniotico, fino agli interventi farmacologici a base di prostaglandine o di ossitocina sintetica, che inducono contrazioni forzate e meno facilmente gestibili dalla partoriente.

Si arriva al paradosso per cui alcune donne che non vogliono indurre il parto una volta superato il “termine” si sentono dire che non vogliono lasciar andare il loro bambino. Com’è comodo addossare alle madri ogni inadeguatezza dell’assistenza alla nascita, o colpevolizzarle ogni volta che proteggono la fisiologia di gravidanza, parto, allattamento, usando facili psicologismi da salotto…

Forse non è il corpo o la mente delle donne che non va, forse semplicemente le donne hanno gravidanze più o meno lunghe (o i feti hanno gestazioni più o meno lunghe).

I nostri corpi, i corpi dei nostri figli, vanno bene; la pretesa che tutti funzionino allo stesso modo non va bene.

Che cosa fa “inceppare” il travaglio?

L’ossitocina, l’ormone dell’amore, che presiede all’orgasmo e che governa tutto il travaglio e il parto determinando le contrazioni uterine e la progressione del feto nonché l’espulsione della placenta, è definito “l’ormone timido” in quanto situazioni di disturbo ambientale possono bloccarne la secrezione. Rumori, freddo, scomodità, affollamento, ansia, imbarazzo sono tutti elementi capaci di arrestare un travaglio. Ormoni antagonisti dell’ossitocina, come l’adrenalina e il cortisolo, legati allo stress o disagio psicofisico e alle situazioni di pericolo, se suscitati da un’assistenza al travaglio invadente, violenta o ansiogena, possono innescare una reazione “lotta o fuga” con conseguente rallentamento della dilatazione della cervice uterina e blocco del travaglio.

L’ambiente estraneo e freddo del reparto ospedaliero, la sala parto, la costrizione in posizioni antifisiologiche come quella supina sul lettino ostetrico, il monitoraggio continuo che impedisce la libertà di movimento, le luci intense, le visite vaginali frequenti, digiuni immotivati, flebo, andirivieni di persone estranee, tutto questo non permette agli ormoni di fare il loro lavoro e di disattivare la neocorteccia cerebrale (preposta al pensiero razionale) permettendo l’attivazione degli antichi circuiti cerebrali che innescano le risposte istintive.

Questi aspetti sono illustrati ampiamente nei libri di Michel Odent (vedi ad esempio “La scientificazione dell’amore” e “Le funzioni degli orgasmi“), come anche in modo ironico nel cortometraggio “la prestazione”, nel quale ci si chiede cosa succederebbe se l’atto sessuale venisse disturbato allo stesso modo in cui viene disturbato il travaglio e il parto!

La fase espulsiva: lasciar andare o tirar fuori?

Lo stesso termine usato, “espulsione”, evoca l’idea di un cacciare fuori a forza. Ma aiutare un bambino a nascere è più una questione di non trattenere che una questione di “spingere fuori”. Non è un’evacuazione! Purtroppo, spesso invece di lasciare che agisca il cocktail di ormoni naturali di un parto, e quindi che si inneschi quello che Odent chiama il “riflesso di eiezione del feto”, si forza la donna a spingere quando non è ancora il momento, e allora il parto diventa una guerra fra un perineo che si irrigidisce e trattiene, e la muscolatura del “torchio addominale” che spinge dall’alto. La manovra, spesso suggerita, di tenere il mento abbassato, inspirare, trattenere il respiro e spingere in apnea si chiama manovra di Valsalva ed è piuttosto pericolosa, perché in quel momento l’ossigeno non arriva né a mamma né a bambino, e inoltre questa compressione stimola il nervo vago e può causare malori. Queste spinte forzate inoltre mettono maggiormente a rischio il perineo di lacerazioni o cedimenti.

A volta, proprio a causa di queste sollecitazioni inappropriate, il travaglio si blocca proprio nella fase espulsiva: ed ecco che allora si interviene ancora più pesantemente con la manovra di Kristeller, la “spremitura” dell’utero, intervento ormai comprovato nella sua inutilità e pericolosità e che nonostante tutto qui in Italia è ancora tanto diffuso.

Spesso a questi interventi di accelerazione si affianca l’episiotomia, cioè quel “taglietto” fatto, secondo le intenzioni, per prevenire lacerazioni spontanee. Le evidenze scientifiche mostrano in realtà che tali lacerazioni raramente si verificano se si assumono posizioni diverse da quella supina, e che sono in genere più lievi e superficiali delle conseguenze causate dall’episiotomia, una vera e propria lesione genitale rituale.

Se si lascia che il travaglio proceda indisturbato, la vagina si dilata gradualmente, la progressione del bambino è lenta,  ma madre e bambino sono ben ossigenati e non c’è alcuna fretta di accelerare il processo. E quando il bambino è pronto, la madre è pronta, la vagina è pronta, le spinte divengono irresistibili e avvengono senza bisogno di nessuna esortazione. E il più delle volte non avvengono in apnea, ma con emissione di aria o spesso di voce/grido: il modo più fisiologico di aiutare un bambino a nascere.

Secondamento

Dopo l’uscita del feto, segue un’ultima contrazione uterina che accompagna l’espulsione della placenta. Si tratta di un momento delicato, in quanto finché non è avvenuto questo evento i tessuti dell’utero non si contraggono adeguatamente e il rischio di emorragie importanti può essere alto. Questo spiega forse la fretta con cui si cerca di accelerare il più possibile il secondamento, con manovre o utilizzo di farmaci. Ma non sempre presto e bene vanno insieme!

La fisiologia prevederebbe che:

  1. nasce il bambino. È ancora ossigenato tramite la placenta, che è ancora attaccata all’utero
  2. Il bambino impara a respirare con calma, via via che il cordone smette di pulsare. L’utero è in pausa. I vasi sanguigni che collegano la placenta alla parete uterina collassano e si chiudono gradualmente.
  3. I vasi sanguigni placenta-utero sono del tutto chiusi. La placenta è pronta a staccarsi, un po’ come succede alla coda della lucertola.
  4. Intanto il bambino si presume stia addosso alla sua mamma e abbia trovato il seno cominciando a succhiare. Questo stimola una seconda ondata di ossitocina e nuove contrazioni dell’utero, che chiudono ulteriormente i vasi sanguigni impedendo emorragie, e fanno “partorire” la placenta, da sola o con un aiuto attivo di spinta da parte della mamma (il secondamento in genere non è particolarmente doloroso, perché il dolore è dato dalla dilatazione del collo dell’utero, e in questa fase è ancora aperto abbastanza da far passare la placenta)
  5. La placenta esce. L’utero resta contratto grazie all’ossitocina naturale prodotta dal secondamento e dal contatto continuo con il bambino. Il collo dell’utero si richiude.

Se la placenta viene staccata via a forza quando ancora non si è interrotto il collegamento con le pareti uterine, ci sono vasi sanguigni ancora aperti e quindi chiaramente sanguinano. Inoltre questa manovra può causare la ritenzione di alcuni frammenti di placenta (cioè la placenta si rompe in quelle zone che sono ancora attaccate), e in quel punto l’utero non può contrarsi, quindi continua a sanguinare fino a quando non si procede a fare una “pulizia” (che è un vero e proprio intervento medico/chirurgico).

I frammenti di placenta ritenuti, oltre a causare emorragia e stillicidi di sangue anche per settimane (finché non si risolve la causa), possono causare infezioni molto pericolose; inoltre continuano a mandare in circolo materno ormoni della gravidanza (perché quei pezzetti di placenta sono “vivi” e funzionano!), e questo blocca la fase due della lattogenesi, cioè impedisce l’azione della prolattina causando un ritardo della montata lattea. È una delle cause per cui un allattamento può non avviarsi nonostante il bambino poppi bene e spesso.

Separazioni

Interventi inopportuni hanno una ricaduta negativa anche sul bambino che sta nascendo.

Il cordone ombelicale, come mostrano alcune ricerche, continua a funzionare non solo finché pulsa, ma anche diverso tempo dopo la cessazione delle pulsazioni, continua il passaggio di elettroliti, portando a livelli perfetti l’equilibrio del ph del sangue del bambino.

Il bambino viene spesso allontanato immediatamente dalla mamma, e invece del contatto pelle a pelle così fondamentale per l’imprinting, il “riconoscimento” reciproco, viene lavato asportando la vernice caseosa (che ha invece un importante ruolo protettivo), vestito, aspirate le vie aeree, fatte profilassi varie (collirio, iniezioni di vitamine), pesato, misurato, auscultato.

Non si sta dicendo che il neonato non debba ricevere assistenza ed essere valutato nel suo stato di salute; ma tutti gli interventi (limitati a quelli veramente necessari) dovrebbero essere fatti nella naturale condizione del post parto, e cioè col bambino addosso a sua madre. Il concetto che per valutare lo stato di salute ed osservare la fisiologia di un neonato, si debba metterlo in condizioni salutari e fisiologiche, è ben espresso dal pediatra Alessandro Volta nel suo libro “APGAR 12”.

La prima poppata del bambino, che in una condizione indisturbata avviene in genere nella prima ora dalla nascita, stimola ulteriormente il rilascio di ossitocina e, grazie anche alle frequenti poppate successive, mantiene l’utero contratto, prevenendo le emorragie. Spesso invece l’allattamento è dilazionato e limitato, e si somministrano ossitocina sintetica e altri farmaci per indurre l’utero a contrarsi; sostanze che impediscono la sintesi dell’ossitocina da parte dell’organismo materno.

L’ultima e più grande interferenza del parto è la separazione fra mamma e neonato, che avviene, per periodi più o meno prolungati, nella maggioranza dei punti nascita. La diade madre-bambino, un’unità funzionale biologica ed emotiva, viene brutalmente lacerata, ostacolando il processo di riconoscimento reciproco, la formazione del legame, l’allattamento. Le pratiche routinarie di “accoglienza” del neonato non tengono conto del suo bisogno di delicatezza, calma, silenzio, tocco gentile, calore, contatto ventrale pelle a pelle con il corpo materno: un bisogno fondamentale già ben enfatizzato da Maria Montessori quasi un secolo fa, e ben espresso nel libro di Frederick Leboyer “Per una nascita senza violenza”, che ha segnato una svolta nel modo di vedere l’assistenza alla nascita negli anni ’70. Ancora una volta la fretta e l’ansia di controllare un processo che ha la sua necessaria lentezza impedisce al flusso sanguigno placentale di cessare da solo con gravi conseguenze per il bambino, privandolo di circa un terzo del sangue placentale, con ricadute importanti sulla sua salute e sulle sue scorte future di ferro (vedi questo articolo su questo sito).

Cambiare paradigma

Tutte queste interferenze impediscono all’immenso potenziale biologico del parto di esprimersi pienamente e hanno gravi ricadute sul benessere e sulla salute di madre e bambino, a breve, medio e lungo termine. È importante sottolineare che l’interferenza avviene anche se non c’è negligenza, imprudenza o imperizia nell’assistenza al parto; sono le conseguenze dell’applicazione di procedure medicalizzanti, che sostituiscono la potenza intrinseca della partoriente e del nascituro con una procedura esterna, basata sui farmaci e sugli interventi medici. Questi interventi di stravolgimento della fisiologia non vengono però percepiti come tali, ma come una opportuna routine che protegge e aiuta la donna e il bambino e traccia confini certi e “difendibili” all’operato del medico. 

Per operare un vero cambiamento nell’arte di accompagnare alla nascita, non basta cambiare protocolli o magari modificare una singola parte delle pratiche ostetriche. Un parto fisiologico, cioè indisturbato e attivo, è un insieme coerente di eventi e processi che lavorano in sinergia. Il parto medicalizzato, d’altra parte, è anch’esso un sistema coerente, con una sua logica interna, entro la quale ogni atto medico è causa e conseguenza di altri atti medici. Non è possibile dunque cambiare un singolo aspetto del parto e lasciare il resto; è l’approccio in sé che va cambiato.

Gli operatori accanto alla partoriente, pur mantenendosi pronti a intervenire con tutta l’arte medica nel momento in cui si presenti un’evoluzione patologica del travaglio e del parto, si dovrebbero approcciare alla nascita con un atteggiamento di non interferenza accompagnata da una attenta ed empatica osservazione della donna e poi del neonato. Non è questione di tecniche ma di presenza. Altrimenti, come afferma Leboyer nel suo celebre libro già citato, “senza amore sarete solo abili”.

Antonella Sagone, 18 giugno 2022

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