Perché il Benessere è nemico del Bene

Perché il Benessere è nemico del Bene (e anche dell'Essere)

Oggi vorrei proporvi una riflessione un po’ fuori dai binari dei miei soliti temi. Vi starete chiedendo se sono impazzita: ma perché ce l’ho col benessere? Cosa c’è di male nel voler stare bene?

Nulla, certo, e spero che nessuno pensi che io mi sia convertita alla setta dei flagellanti, facendo improvvisamente mia la mistica del “si vive per soffrire”. Certamente ogni essere umano tende verso ciò che lo fa star bene, e rifugge ciò che lo fa soffrire, e ci mancherebbe altro che non fosse così. Eppure da settimane insistentemente sento il bisogno di andare a scavare un po’ più dentro questo concetto del benessere; o forse, in quello che ci viene presentato come un ideale di vita basato su questo concetto. Permettetemi di fare una riflessione a voce alta.

Parole che vanno, parole che vengono

I nostri nonni sono cresciuti in un’epoca che amava riempirsi la bocca di parole roboanti e clamorose, come ardore, vittoria, codardia, coraggio, gagliardia, possanza, esultanza, infamia, orgoglio, indegnità, passione, genio, battaglia, sfida, fede, perfidia, disfatta, trionfo, volontà, sacrificio, estasi.

Oggi la maggior parte di questi termini suonerebbero politicamente scorretti, o almeno inappropriati e antiquati. Oggi i termini che ci vengono ripetuti fino allo stordimento sono tutti perfusi da toni pastello, e agli squilli di tromba che accompagnavano le parole dei nostri avi, si è sostituita una soffice e sommessa musica da camera. Abbiamo quindi, al di là di un profluvio di termini anglosassoni, anche sostenibilità, sicurezza, inclusività, resilienza, fluidità, ripresa, bilanciamento, solidarietà, accoglienza, esitazione, diversità, confronto, flessione, equalizzazione, sviluppo, moderazione, disagio, e benessere.

Sì, ecco appunto il benessere.

La prima volta che ho avuto una collisione con questa parola è stato quando, molti anni fa, dopo una vana resistenza durata qualche anno, sono entrata nell’affollato universo di Facebook. Desiderosa di incontrare gente affine a me nell’anima, ho cercato la lista dei “gruppi”, scoprendo che erano organizzati in categorie. Dati i miei interessi, ho cercato categorie come “salute perinatale” o “maternità e infanzia” o anche “parto, nascita e allattamento”. Ahimè nulla del genere. E nemmeno una banale categoria come “medicina”. C’era la categoria “famiglia”, ma conteneva temi che andavano in tutt’altra direzione rispetto ai miei interessi; la più pertinente risultò essere la categoria “salute e benessere”. Scoprii poi che questa categoria era onnipresente sul web e faceva evidentemente parte di un sistema di definizione del mondo predefinito e pervasivo. Per qualche motivo, quell’accostamento della parola “benessere” al concetto di salute mi infastidiva, anche se non riuscivo a capire perché. E comunque, nemmeno lì trovai quello che cercavo.

In qualche modo, quel mondo descritto in chiaroscuro, con toni benevoli e carezzevoli anche quando doveva parlare di cose spiacevoli, sembrava preoccupato di smorzare ogni “eccesso” emotivo, nel male e nel bene.

“Googlando” il benessere

È ora di “googlare” un po’ questa parola, e vedere che significato ci viene proposto dalle fonti che determinano il pensiero mainstream, cioè del “flusso principale”.

Ma aspetta, prima di vedere dove va questa parola, guardiamo da dove viene. Sulle vecchie, fidate fonti di carta, altrimenti dette dizionari.

Il buon Devoto-Oli dichiara che il benessere è “la sensazione di essere in perfette condizioni fisiche e psichiche”; salute, serenità, gioia. Oppure, (2) agiatezza prosperità, ricchezza. Queste due accezioni rispecchiano i due significati della parola latina, infatti bene esprime sia il concetto di salute e felicità, sia quello di abbondanza.

Ed ora, Google. Per prima cosa le immagini. E qui, sono sommersa da quieti paesaggi naturali con l’immancabile siluette della giovane donna che fa yoga o meditazione. Poi, le parole. Ed ecco link a siti che vendono prodotti di ogni sorta, per lo più integratori o tisane, per il benessere “dei vostri capelli”, o intestino, ossa, fegato o qualsiasi altro organo o apparato del corpo. Ma andiamo più vicino alla mia area di interesse. Il primo link che emerge digitando “benessere di madre e neonato” è quello di un sito molto popolare che titola “il neonato ha due mesi” e approfondisce: “Nel secondo mese di vita del neonato tutto diventa più semplice per la mamma (…). Ma attenzione, l’impegno a prendersi cura del bambino non è diminuito poi molto e anche se la mamma può sentirsi via via meno stanca, questo non significa che dovrebbe abusare delle proprie forze, specie se sta ancora allattando”. Benvenuti nel mondo delle favole! Quello dove “andrà tutto bene” – o, quantomeno, sempre meglio. Purché, beninteso, si dorma a sufficienza, ci si alimenti in modo sano, si faccia esercizio fisico, e non ci si lasci stravolgere troppo la vita dal bambino. E non allattate troppo!

Comincio a intravedere cosa mi rende così irritante questa parola. Chi la enfatizza spesso cerca di veicolare l’idea di un’esistenza in cui si è fragili di fronte agli sconvolgimenti della vita, suscettibili alla fatica, alla malattia, all’esaurimento. Psiche e corpo sembrano essere non in grado di rigenerarsi da sé, ma hanno bisogno di aiuti, sotto forma di prodotti o di consulenze da parte dei vari coach del benessere. Che viene dipinto come uno stato di serenità senza sussulti o eccessi, una condizione confortevole che va conquistata e mantenuta grazie a un prudente ed equilibrato uso delle proprie risorse.

Una conferma proviene da siti che parlano di benessere psicologico. Emerge l’Istituto Superiore di Sanità, che a tal proposito afferma: “Predisposizione genetica ed esperienze biografiche individuali cooperano nello strutturare individui fragili oppure resilienti, in grado cioè di fronteggiare avversità esistenziali anche ripetute e protratte”. Anche l’OMS, che ha incluso il benessere psicologico fra i fattori che compongono la salute dell’individuo, lo definisce come “quello stato nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive o emozionali per rispondere alle esigenze quotidiane, stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, adattandosi costruttivamente alle condizioni esterne e ai conflitti interni”. Ecco farsi strada un’idea di benessere che enfatizza soprattutto la capacità di adattamento, di inserirsi senza attriti nel tessuto sociale ma anche assorbendo senza traumi le condizioni avverse della vita: insomma quella tanto ultimamente decantata resilienza, che poi resilienza non è, ma piuttosto è acquiescenza e capacità di sopportazione.

C’è altro? In effetti, sì. A sorpresa, le successive e più frequenti occorrenze dei motori di ricerca riguardano gli animali. Ma non quelli che vivono allo stato di natura: si tratta degli animali da allevamento. Scopro, grazie a un sito che si chiama “carni sostenibili”, le cinque libertà (citatissime in tutti i siti del genere) sancite da un ente che tutela gli animali da allevamento: sono prima di tutto libertà “da” qualcosa (fame, sete, dolore, malattie, paura) e poi libertà “di” (esprimere la propria natura in un ambiente adeguato, in cui possano trovare riparo e riposo). Scopro che esiste una quantità di enti che si preoccupano di emanare linee guida per il benessere animale, via via però derogando sempre più, concedendo sempre più eccezioni al concetto di base, fino all’ente europeo, che preoccupandosi della sicurezza alimentare (la nostra, naturalmente), esorta a ridurre il più possibile la sofferenza e il dolore degli animali da allevamento, anche in fase di stordimento e di macellazione: perché, non dimentichiamolo, questi animali vivono solo quel po’ che serve per diventare cibo per le nostre tavole. Manca loro la sesta libertà: quella di vivere allo stato naturale, crescere i propri piccoli, e alla fine morire di vecchiaia. Ma l’importante è che vivano felici! Infatti questi siti sono pieni di immagini bucoliche di mucche al pascolo e di galline che razzolano in aie appartenenti allo stesso mondo fiabesco della meditatrice yoga e della mamma e bambino felicemente riposati.

Ed ecco che emerge l’aspetto inquietante della parola benessere. E cioè l’uso che se ne fa, che serve a mascherare la fregatura nascosta. “È per il tuo benessere” sembra costituire la variante soft del ben noto “è per il tuo bene”, che tanto spesso accompagna la pedagogia nera. E qui sorge il perturbante dubbio nato dal parallelo con gli animali da allevamento. Non sarà che stanno cercando di spingere anche noi dentro una confort zone che ci mantenga acquiescenti, adattati, riluttanti a levare lo sguardo, a prendere in mano le nostre vite, nel bene e nel male? Per cosa siamo allevati, o almeno si prova ad allevarci?

Fuori dalla confort zone

Non c’è niente di male nel benessere. È giusto che ogni essere umano ne abbia la sua parte; specialmente quando il benessere e la salute coincidono con la possibilità di esprimere pienamente il proprio potenziale e la propria natura vitale. Diciamo che in conclusione delle mie riflessioni ad alta voce ho fatto pace con questo concetto. Ma quello che invece è emerso come indigesto alla mia coscienza è la retorica del benessere, l’ideologia che fa un uso manipolatorio di questa condizione, traducendola nella mitologia di una vita confortevole, senza grandi aspirazioni, grandi gioie ma nemmeno grandi dolori. Questa idea riduttiva dello “star bene”, tutta materiale e tutta addomesticata, diviene pericolosa quando viene prospettata come la massima felicità e sicurezza, l’unica meta a cui tendere nella vita, perfettamente conforme a certi scenari distopici in cui “non avremo nulla e saremo felici”.

La vita è molto altro. È anche sudore, paura, lotta, estasi. È fare l’amore con passione, inerpicarsi su una montagna anche se ti dolgono le dita, piangere lacrime di gioia, partorire in un grido, scolpire un’opera d’arte, passare notti insonni a risolvere un dilemma matematico, lottare per la vita dei nostri cari, rischiare la pelle per la libertà, e tanto altro ancora. Se penso a tutti gli eventi della mia vita che sono stati cruciali per farmi essere ciò che sono, non emerge un solo momento di “benessere”.

Quindi grazie per la confort zone, un giro ogni tanto ce lo faccio volentieri, ma poi lasciatemi uscire a vivere il Bene (che è molto di più), e lasciatemi pienamente Essere, che significa muoversi in una zona di esistenza molto più vasta.

Antonella Sagone, 9 febbraio 2023

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