Chi ha paura della tenerezza?

Chi ha paura della tenerezza?

Una mamma mi ha inoltrato l’ennesimo testo dell’ennesimo esperto che spiega ai genitori perché bisogna resistere alla tentazione di accogliere il bambino nel letto dei genitori.

Di questo articolo citerò qualche passaggio, non tanto per prendermela col singolo operatore, o per dibattere la questione del lettone, ma solo perché si presta molto bene a rappresentare un aspetto della nostra cultura del distacco, che si esprime in modi molto simili anche rispetto a tutti quegli altri aspetti della vita con il bambino che implicano un accudimento sollecito e momenti di intimità e di tenerezza.

I “pericoli” della felicità condivisa

Il brano incriminato comincia mettendosi nei panni del bambino. Per il bambino, spiega l’esperto, il letto dei genitori è un paradiso: tepore, intimità, tenerezza, la sicurezza della vicinanza di mamma e papà nelle incerte ore notturne; luogo di poppate rilassanti per i bambini allattati, e di coccole per tutti. Chi non vorrebbe mettere radici in questo nido rassicurante?

Dopo questa descrizione, i genitori che leggono sono già conquistati al gioco della retorica. Non si può che convenire! Come dare torto al bambino e alla sua pretesa di dormire con le persone che ha più care al mondo?

La cosa stupefacente è che partendo da questa premessa la conclusione non segua la logica per dire “E quindi, fategli spazio nel lettone, sarete tutti più felici”, bensì, al contrario, si passi a spiegare perché questa abitudine sia terribilmente dannosa per il bambino (oltre che scomoda per i genitori).

Il lettino è progresso, il lettone è regresso, continua l’esperto con uno slogan a effetto. E arriva alla straordinaria conclusione che permettere al bambino di godere della tenerezza del sonno condiviso gli impedisca di crescere emotivamente, di imparare a superare l’ansia di abbandono, di “diventare autonomo”. Questa indulgenza prolungherebbe il periodo delle crisi di separazione, ostacolerebbe l’inserimento all’asilo, impedirebbe al piccolo di godere di un sonno ininterrotto. Insomma, questa esperienza così bella sarebbe, di fatto, causa di maggiori sofferenze per il bambino, specie nel suo futuro.

Queste affermazioni in genere non sono espresse nella forma di una convinzione personale, ma introdotte da frasi come “la maggioranza degli psicologi afferma che”, oppure “è vero che… non c’è dubbio che… è noto a tutti che…”.

Questo articolo, uguale a mille altri, conduce il lettore, incantandolo come il pifferaio magico con le iniziali affermazioni ovvie, su un terreno infido in cui smantellerà tutti i suoi slanci naturali di tenerezza e minerà la sua sicurezza di genitore.

L’ossessione dell’abitudine

Ciò che sembra monopolizzare i pensieri di questi “guastatori” della felicità altrui è un’idea fissa: che i bambini facciano le cose, o le richiedano, “per abitudine”. E cioè, il bambino sarebbe un individuo indifferenziato che viene modellato dall’esperienza e che diventa quello che noi lo facciamo diventare, permettendogli o meno di ripetere molte volte le stesse situazioni e sensazioni.

I bambini non cercherebbero il contatto continuo con la mamma perché è un loro bisogno primario; ma lo chiederebbero perché “sono stati abituati così”.

“Il problema”, continua l’esperto, “nasce quando il bambino non può fare a meno del lettone”. Eccolo lì il punto cruciale, la più pericolosa delle situazioni: avere emotivamente bisogno degli altri.

Si pensa che il bambino, se “prenderà gusto” alle gioie delle cure prossimali, poi non vorrà più rinunciarvi.

Anche fosse così, che ci sarebbe di male nella consuetudine della tenerezza e dell’amore? Mi sembra la meno nociva di tutte le dipendenze, le quali ne sono un surrogato inefficace e tossico.

Meglio non amare che perdere l’amore?

Ed ecco ciò che spaventa: la paura che se si prende gusto alla tenerezza, all’amore, alla presenza rassicurante dei propri cari, un giorno si dovrà venire per forza strappati dal paradiso terrestre e ci si vedrà negare la felicità.

Non è allora meglio non imparare nemmeno a godere di certe gioie? Se non le si sperimentano, non se ne sentirà la mancanza.

È proprio quello che l’esperto consiglia: non gli fate nemmeno assaggiare il piacere di dormire nel lettone. Il bambino non deve nemmeno immaginare, dice, che in alcune case i bambini possano dormire con mamma e papà.

Si ha paura che l’amore crei dipendenza, e quindi renda vulnerabili se poi viene negato: è il dramma del narcisista, che sceglie di chiudersi all’amore e di bastare affettivamente a se stesso, per timore del rifiuto affettivo che ha spesso sperimentato.

E per evitare la dipendenza dall’amore sceglie la strada della dipendenza da “cose” (oggetti, beni, ricchezza, sostanze…) che possono dare l’illusione di essere sotto il proprio controllo.

La condizione dolorosa di isolamento affettivo viene ridefinita come una grande conquista, un’evoluzione positiva: la tanto decantata “indipendenza” che segnerebbe il traguardo a cui tutti gli esseri umani devono tendere. Un concetto con il quale i genitori vengono martellati fin dal primo giorno di vita del loro bambino.

La patologia del narcisismo è proprio questa: l’illusione che si possa bastare a se stessi e non avere bisogno affettivo di nessuno. Si reinveste la propria affettività su se stessi e sugli oggetti (ottimo per la nostra società dei consumi) e si opera un distacco emotivo “a priori” per evitare il rischio di soffrire in caso di rifiuto o di mancanza di affetto da parte degli altri.

Questa autarchia affettiva non è una virtù, ma una triste condizione, purtroppo così diffusa al giorno d’oggi da essere considerata lo standard della normalità.

Meglio rischiare

La filosofia del narcisismo nasce da un’esperienza originaria di “freddezza” affettiva, di amore condizionato, da un passato in cui si  è vissuti nella precarietà degli affetti, senza poter costruire quella solida base sicura che renda capaci di affrontare anche i momenti inevitabili di frustrazione e di perdita. Per non soffrire più, si rinuncia anche alla gioia.

Amare è rischioso? Certo che lo è! Si può andare incontro a ostacoli o delusioni che ci lasciano lì a struggerci per ritrovare la gioia della condivisione affettiva. Ma gioia e sofferenza fanno parte della vita, e barattare l’incertezza delle emozioni con la sicurezza del controllo ci fa perdere i momenti felici insieme a quelli dolorosi, relegandoci in un limbo malinconico al di là del bene e del male.

In realtà, il concetto di dipendenza non è così dannoso e minaccioso come si vuole dipingere. Noi esseri umani siamo una specie sociale, e siamo fatti per creare una rete di legami duraturi e muoverci nell’interdipendenza, e non come monadi isolate e autosufficienti. Se intorno a noi c’è una comunità sufficientemente buona, le singole perdite di legame saranno compensate dalla rete affettiva che ci include comunque.

La dipendenza dall’amore dunque esiste? Sì! Ci nasciamo! Ed è il collante della società e il tessuto di sostegno della vita nell’universo.

Cosa si può desiderare di più?

Antonella Sagone, 9 marzo 2023

3 thoughts on “Chi ha paura della tenerezza?”

  1. Clara Curtotti ha detto:

    grazie Antonella ancora una volta per la tua competente ed accurata difesa del codice dell’Amore!

    1. Paolo Serra ha detto:

      Ottima riflessione!

  2. Vincenza Feudo ha detto:

    Le coccole non sono mai abbastanza. Contribuiscono allo sviluppo affettivo e alla stima di sé! Quindi ben vengano sempre! Grazie Antonella per la tua analisi chiara e dettagliata!

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