Perché i bambini piangono?
Può sembrare una domanda stupida, ma date le tante dicerie che circolano in proposito è necessario chiarire il concetto. Infatti sul pianto del bambino si sono dette una quantità di cose e il loro esatto contrario, e i genitori sono sommersi da consigli contraddittori su come gestirlo, il che causa disorientamento e comportamenti di risposta caotici e poco funzionali a un accudimento sereno del neonato.
In particolare, una questione importante è riflettere su come viene vista la funzione del pianto del bambino, i vissuti che suscita nei presenti e la cornice in cui queste interpretazioni vengono collocate, e cioè all’interno di teorie educative più o meno basate sulla fisiologia, la natura e l’evidenza scientifica.
Cosa NON è il pianto
Nel comprendere il motivo per cui il bambino piange, entrano in gioco i preconcetti su quale sia il significato e la funzione del pianto del bambino. Molte idee, anche strampalate, hanno preso piede nella nostra cultura, e pertanto cominciamo con il dire che cosa il pianto non è.
Il pianto non è un modo per allargare i polmoni.
È una vecchia diceria ma ancora si sente dire ogni tanto… e altrettanto famosa è la replica di un medico che diceva: se il pianto fa bene ai polmoni, allora sanguinare fa bene alle vene!
Durante il pianto in realtà il bambino si ossigena meno, e quindi i bambini che piangono a lungo riceveranno meno ossigeno al cervello.
Il pianto non è uno sfogo liberatorio.
Si sente dire a volte che il neonato abbia bisogno di piangere per scaricare la tensione accumulata. Corollario di questa teoria è il consiglio di non cercare di interrompere il pianto con azioni consolatorie, altrimenti il bambino non riuscirebbe a scaricare la tensione, con conseguenze nefaste.
Esistono in realtà studi che mostrano come il pianto si accompagni al rilascio di cortisolo, l’ormone dello stress; il pianto prolungato si accompagna a uno stress prolungato.
Il pianto non è un comportamento.
Si parla spesso del pianto come fosse un atto intenzionale che il bambino compie così, per caso oppure, al contrario, per uno scopo perverso, come sfidare o manipolare i genitori.
Secondo questo pensiero, rispondere al pianto significherebbe incoraggiarlo, “premiando” il bambino con le coccole o la presenza dell’adulto.
Il pregiudizio sottinteso è che il bambino possa piangere per “capriccio”, cioè senza un motivo valido. Ignorarlo sarebbe perciò un atto educativo… in realtà il pianto è un segnale, e in quanto tale ha la funzione di attirare l’attenzione degli adulti non sul pianto stesso, ma sulla causa che lo ha generato. Focalizzarsi sul “comportamento del piangere” è come guardare il dito invece della luna.
Di fronte a un adulto che chiede aiuto, direste: “Non ascoltatelo, altrimenti lo incoraggerete a chiedere aiuto continuamente”? Se un bambino piange, significa che qualcosa non va; accorrere da lui, prenderlo in braccio, allattarlo, accudirlo risolve il problema ed estingue il pianto.
Il pianto come regolatore della distanza
Il primo e fondamentale punto da chiarire quindi riguardo al pianto è che esso non è mai senza motivo. È indubbio che il pianto del neonato e del bambino abbia una funzione, che non è quella di far perdere la pazienza agli adulti!
La natura ha dotato i neonati di una laringe capace di emettere urla che sfiorano la soglia del dolore uditivo, e ha altresì dotato gli adulti, e in particolare le madri, di orecchie e di un apparato uditivo altamente sensibile. Non lo ha certo fatto per sadismo! Lo ha fatto perché il pianto del neonato risultasse non così stressante da mettere K.O. gli adulti intorno a lui, ma sufficientemente stressante da indurli ad accorrere e cercare di farlo cessare il prima possibile. Se il comportamento di accorrere da un bambino che piange e cercare di consolarlo fosse diseducativo, disfunzionale, causasse insomma lo sviluppo di un individuo disadattato, probabilmente la natura avrebbe dotato il neonato della capacità di gorgheggiare, invece che di un efficace sistema di allarme.
Oltre a fungere da sistema di allarme per problemi specifici, il pianto del neonato ha l’importante funzione di regolare la vicinanza fra mamma e bambino. John Bowlby, il padre della teoria dell’attaccamento, ha descritto ampiamente questa funzione. La sua opera fondamentale, Attaccamento e perdita, descrive come cruciale il parametro della distanza fra madre e figlio: una distanza che equivale a zero subito dopo la nascita e nelle prime settimane, e che in seguito, via via che il bambino cresce, può aumentare per un comportamento di allontanamento attivo della madre prima e del bambino poi, ma sempre restando entro un limite che mantenga il bambino al sicuro dai rischi ambientali (soprattutto i predatori). Noi non siamo una specie da tana, i nostri cuccioli non sono al sicuro perché nascosti in un luogo scavato in profondità nel terreno; siamo una specie ad alto contatto, e i nostri cuccioli sono al sicuro perché non ci separiamo mai da loro.
Quando la distanza supera il limite di sicurezza, uno dei due membri della diade (la coppia madre-figlio) si attiva per ripristinare la distanza minima. Quando il bambino comincia a gattonare può succedere che si allontani troppo: è la madre che allora lo cerca con lo sguardo e se non lo vede si angoscia e corre a ritrovarlo. Se Il bambino si accorge di essersi allontanato troppo dalla mamma, può essere lui ad affrettarsi a tornarle vicino, cosa che la nostra cultura erroneamente disapprova, definendo un comportamento vitale per la sopravvivenza come “dipendenza” eccessiva dalla mamma. Definiamo questi bambini come “appiccicosi”, “attaccati alle gonne della mamma”, mentre stanno semplicemente proteggendosi dai predatori (loro non sanno di essere nati nel XXI secolo).
Ma che succede se la mamma si allontana troppo e il neonato non è ancora in grado di muoversi da solo? Attiverà il segnale di allarme piangendo, e così richiamerà immediatamente l’adulto accanto a sé. Il leopardo resterà senza cena anche questa volta!
i bambini non sono prepotenti, e le madri non sono ansiose, perché si attivano per mantenersi in stretto contatto: è profondamente inciso nei loro geni, ed è il meccanismo attraverso il quale da milioni di anni i mammiferi garantiscono la sopravvivenza della prole e quindi della specie.
Gli stati neurocomportamentali
Un modo per descrivere le reazioni dei neonati (e anche degli individui in generale) rispetto alle situazioni ambientali è quello di parlare di stati neurocomportamentali. Si tratta di risposte innate dell’organismo, mediate da ormoni e da neurotrasmettitori, in cui il sistema nervoso risponde in un certo modo agli stimoli e il comportamento è specifico. Il sogno, il sonno profondo, la veglia rilassata, la veglia attiva, il comportamento alimentare, sessuale, esplorativo, sono differenti stati neurocomportamentali. Lo stato di calma e connessione in cui si trovano mamma e neonato quando sono rilassati e in contatto pelle a pelle rappresenta la matrice dello stato di benessere; questo stato è mediato dall’ormone ossitocina, non a caso detto “ormone dell’amore” e anche ormone “prosociale” perché favorisce le relazioni fra le persone e la coesione sociale nei gruppi di individui.
Al contrario, quando si è di fronte a un pericolo è necessario che l’organismo sia rapidamente messo in condizione di reagire e proteggersi lottando o sottraendosi al pericolo. Questo stato neurocomportamentale, detto anche di “lotta o fuga”, è mediato da altri ormoni molto potenti, l’adrenalina e il cortisolo. Il primo è responsabile di una capacità di risposta muscolare rapida, una maggiore resistenza al dolore, minor sanguinamento, riflessi potenziati, insomma ciò che serve per combattere al meglio oppure per fuggire veloci come il vento; il cortisolo invece è l’ormone legato allo stress e interviene quando la fuga o la lotta non sono possibili e la miglior possibilità di sopravvivenza è quella di non farsi notare dal potenziale aggressore; i suoi effetti sono quindi di indurre l’immobilità e il silenzio.
Nils Bergman, un neonatologo che si è occupato soprattutto di prematurità e di Kangaroo Mother Care, chiama questa risposta come “protesta/disperazione”, e vedremo adesso perché.
Tornando al nostro piccolo bambino incapace di combattere e fuggire, che ha appena scoperto di essere solo, ecco che scatta il sistema di allarme e si attivano i suoi ormoni dell’asse adrenalinico. Agitazione e pianto sono l’effetto immediato, che la natura ha previsto come metodo efficace per far tornare la madre o un altro adulto presso il piccolo.
Ma cosa succede se al pianto nessuno si presenta al bambino? In natura, questo significa che il piccolo è esposto all’enorme pericolo di essere predato. Una madre non abbandonerebbe mai il suo cucciolo indifeso a meno che non fosse a sua volta in fuga, ferita o morta. Se il pianto è il meccanismo vincente nel breve termine per mantenere la mamma vicino al cucciolo indifeso, a lungo termine, cioè se la mamma non risponde prontamente, piangere diventa molto pericoloso, perché attira l’attenzione dei predatori. Quello che allora il bambino deve fare è diventare invisibile. Il suo sistema neuro-endocrino risponde efficacemente a questo bisogno, inducendo uno stato che viene definito “freezing”, congelamento: letteralmente, la temperatura corporea si abbassa, il battito cardiaco e il respiro rallentano, il bambino diviene silenzioso e immobile, e questo gli dà una speranza di sfuggire ai predatori finché un adulto non riuscirà a tornare da lui.
All’improvviso il pianto cessa, il bambino chiude gli occhi, al cortisolo può aggiungersi anche la produzione di endorfine che riducono il dolore e inducono il sonno – un sonno non rilassato, ma comunque necessario per “fuggire” pur restando immobile. Alla protesta si sostituisce la disperazione, che salva la vita… se vivi in una giungla o in una savana.
Il grande inganno
Tutta la narrativa che esalta il valore “educativo” del lasciar piangere si basa sul presupposto che una volta appreso a non chiamare più i genitori in aiuto, il bambino si impadronisca del potere di calmarsi da solo, fatto che io trovo triste ma che viene presentato come una meravigliosa conquista. Poiché anche i genitori, istintivamente, tendono a considerare triste il fatto che il loro bambino se ne stia zitto e rassegnato nel suo lettino, occorre convincerli che in realtà questa calma sia il segno del suo benessere, di una serenità conquistata, di una gioiosa autosufficienza.
È qui che si innesta la menzogna. Lo stato neurocomportamentale di disperazione, il fingersi morto, viene spacciato per rilassamento. Ma il cortisolo in questi bimbi è alto, le labbra sono contratte, i pugni stretti, la fronte corrugata persino nel sonno.
Quindi i genitori accolgono con sollievo le spiegazioni rassicuranti che li sollevano dal senso di colpa provato quando, soffocando l’istinto di accorrere, hanno lasciato piangere il loro bambino. Il risultato è una perdita di connessione con il proprio figlio, minor fiducia nel suo e nel proprio istinto, dipendenza da consigli esterni (spesso poco salutari).
Si perpetua così un circolo vizioso che allontana sempre di più da un modo spontaneo e naturale di relazionarsi.
Conclusioni
Il modo in cui un neonato viene accudito nei primi mesi di vita è fondamentale per il suo sviluppo neurale e comportamentale. Il sistema neuroendocrino è plastico e si modella per rispondere al meglio all’ambiente in cui il bambino cresce. Se l’ambiente è ostile, come viene interpretato un habitat in cui il bambino è spesso esposto al pericolo e lasciato solo, quel bimbo crescerà con un’elevata reazione allo stress e sarà potenziata la sua risposta di lotta e fuga: un buon soldato, ma poco preparato a vivere nella pace e nell’armonia sociale.
Rispetto alle pratiche di accudimento del neonato Michel Odent, medico e pioniere della nascita senza violenza, ammonisce con queste parole:
“Stiamo all’improvviso comprendendo che ci sono dei limiti al nostro dominio sulla natura. Comprendiamo il bisogno di creare un’unità all’interno del villaggio planetario. A questo punto di svolta della storia, l’umanità deve inventare strategie di sopravvivenza radicalmente nuove. Per potervi riuscire, ci servono più che mai le energie dell’amore.”
Le energie dell’amore, l’attivazione dell’asse ossitocinico della calma e della connessione sono la risposta indispensabile per ristabilire il benessere di madre e bambino, rafforzare il loro legame, sostenere l’allattamento, sostenere in modo ottimale lo sviluppo armonico del sistema nervoso del neonato, e promuovere la creazione di un’umanità capace di relazioni solide, fiducia reciproca, cooperazione, compassione, amicizia. Il pianto non è che il segnale di una perdita di quella connessione; accorrere in risposta al pianto è la soluzione e la riparazione della disarmonia e la costruzione di un futuro per l’umanità.
Un approfondimento sul tema del pianto del bambino può essere letto qui.
Se questo articolo ha suscitato in te il bisogno di approfondire questo tema, se desideri confrontarti con una psicologa o una consulente in allattamento, puoi richiedere una consulenza a questo link.
Ottimo lavoro!