Sangue del suo sangue

Sangue del suo sangue

La placenta è un organo che funziona, e funziona il cordone ombelicale finché pulsa.

La prima volta che ho assistito a una nascita era il 1981, avevo 27 anni e stavo facendo tirocinio come psicologa nell’ambito di un corso regionale sulla psicoprofilassi ostetrica; il corso prevedeva anche un paio di giornate in sala parto.

L’ostetrica attendeva l’imminente uscita del feto già con le forbici in mano. Come il bambino sgusciava fuori, con un movimento fluido e veloce veniva sospeso a testa in giù, sorretto per i talloni con una mano, mentre l’altra già armata di pinza andava a clampare il cordone. Il tutto avveniva in 3 secondi circa, seguito dal pianto del bambino e dal click-clack delle forbici che tagliavano il cordone.
 

Tutto questo era routine e non sollevava alcun dubbio: si riteneva di vitale importanza non perdere nemmeno un secondo e interrompere quanto prima quel flusso vitale che aveva sostenuto il feto per nove mesi, come se il venire alla luce richiedesse questo stacco immediato, pena non meglio identificati rischi per il nascituro. Si temeva, e si teme purtroppo anche oggi fin troppo spesso, quella “terra di mezzo” in cui il bambino giace sulla sponda fra due mondi, lambito ancora dalle acque dell’amnio, dal flusso circolatorio placentare, come onde che vanno e vengono, mentre timidamente, con sospiri, starnuti e piccoli suoni alternati a momenti di apnea, scopre il respiro. Agli occhi di chi ansiosamente cerca un segno “chiaro” di respirazione polmonare queste incertezze, questi tentennamenti sono allarmanti e pericolosi.

Solo la voce di Leboyer, con il suo “per una nascita senza violenza” (appena dato alle stampe), aveva osato togliere il velo dagli occhi di tutti e mostrare la violenza della nascita, in un periodo storico in cui si stava cominciando a contestare il “partorirai con dolore” e ci si adoperava per dare alla donna un parto più dolce, ma per il bambino non ci si preoccupava ed egli nasceva, come diceva Leboyer nel suo libro, come “rotolando in un letto di rovi”.

E questa voce fuori dal coro aveva scatenato, in particolare sulla questione del taglio del cordone, un dibattito infuocato. Ricordo come all’epoca si deridessero i seguaci del “parto dolce”, tacciandoli di essere dei romantici che volevano mettere musichette e luci soffuse, mentre “il parto è una cosa seria”, e i detrattori di Leboyer si ritenevano dei medici “veri” che salvavano vite e non avevano certo tempo per certi fronzoli e mode “new-age”.
 

All’inizio degli anni ‘80 quindi c’era molta opposizione al “parto Leboyer” e in particolare al taglio ritardato del cordone e al bambino sulla pancia della mamma. Uno dei motivi era che i medici temevano che il bambino si “svenasse” nella placenta, specialmente se non era messo più in basso della mamma… oggi sembrano superstizioni ma all’epoca se ne discuteva molto seriamente: ricordo un professore e allora famoso medico di un notissimo ospedale romano, che ai media offriva il volto di un pioniere del parto “umanizzato” (come si diceva allora), che, durante quel corso di formazione in psicoprofilassi ostetrica, inveiva parlando a noi allievi contro la proposta di legge regionale del Lazio per l’umanizzazione del parto , che proprio in quei mesi era al vaglio della commissione, e che sanciva il diritto per la donna di assumere le posizioni che voleva, di avere il taglio “ritardato” del cordone, di non essere mai separata da suo figlio.

Mi sono molto interessata a questa questione del taglio precoce del cordone, punto caldo della diatriba, perché proprio sulle interferenze alla nascita naturale verteva la mia tesi di laurea che all’epoca stavo elaborando. Così ho fatto ricerche sui libri di medicina, perché volevo capire da dove era nata questa fretta di tagliare, e dalla lettura di vecchi testi medici ho scoperto che un tempo si aspettava normalmente il secondamento prima di tagliare il cordone; il “quando” non era nemmeno oggetto di discussione o di considerazioni particolari. A un certo punto ha cominciato a diffondersi la pratica di clamparlo prima in caso di cesarei, per il timore di un presunto “svuotamento” del sangue dal bambino verso la placenta, dato che nel cesareo il bambino nascendo veniva posto più in alto del livello dell’addome materno. Poi, come succede con tutte le pratiche medicalizzanti, si è trasferita una prassi usata in alcune condizioni mediche anche a tutti i casi di parto fisiologico… fino a farla assurgere a regola e cercare a posteriori una ragione medica che la giustificasse.

Si è cominciato a dire che dopo i primi secondi non c’era più circolazione o trasferimento di sangue verso il bambino; ma studi successivi hanno smentito queste convinzioni.
 

L’attuale dibattito sulla donazione del sangue cordonale, e il diffondersi di pratiche come il lotus birth e il “mini-lotus”, che poi non è altro che attendere la fisiologica cessazione delle pulsazioni cordonali prima di clampare, hanno riportato alla ribalta la questione, mostrando come ci sia ancora tanta ignoranza e pregiudizi su tale argomento, e soprattutto come si minimizzi l’importanza di questo sangue che, clampando precocemente, resta inutilizzato nella placenta, oppure viene con tanta leggerezza donato (per non parlare del lucro che si può ricavare dalle preziose cellule staminali ottenibili dal sangue cordonale).

Eppure esistono studi che mostrano l’importanza cruciale dei primi minuti in cui il bambino, spiaggiato in quella “terra di mezzo” di cui si parlava prima, continua ad essere connesso alla circolazione materna tramite la placenta e il cordone, mentre lentamente si adatta alla vita extrauterina.

Enzo Braibanti, medico e pioniere della nascita senza violenza, ha effettuato nel suo ospedale uno studio pionieristico effettuando l’emogasanalisi dal cordone a 1, 2 e 4 minuti, attendendo a tagliare, e ha potuto osservare come anche solo con un’attesa così breve il passaggio di sangue continua per tutto il tempo in cui il cordone pulsa.

Osservazioni successive hanno potuto constatare che il passaggio di elettroliti resta attivo anche dopo che le pulsazioni sono cessate. Ed ecco cosa scriveva, con piena cognizione di causa, già nel 1980:

“Si sono spese un sacco di parole sul fatto che il bambino rischia di svenarsi nella placenta oppure di richiamare troppo sangue e avere dei sovraccarichi al circolo polmonare. Niente di tutto questo chi scrive ha mai osservato. La placenta è un organo che funziona, e funziona il cordone ombelicale finché pulsa. Collocare il bambino più in alto o più in basso del piano placentare non determina affatto disturbi all’ancora esistente complesso placenta-neonato, così come non ci sono squilibri circolatori perché il capo è più in alto del cuore. In tutti i parti del nostro ospedale si è eseguita la gas-analisi sull’arteria ombellicale che porta il sangue dal bambino alla placenta e sulla vena ombellicale che lo porta dalla placenta al bambino. Si è potuto constatare come la placenta continui ad agire bene soprattutto nella sua funzione di rene, di aggiustante metabolico.”

Enzo Braibanti, Nascere meglio, ed Riuniti 1980.

Molto si è detto su quanto sia significativa la quota di sangue di cui si priva il neonato clampando immediatamente il cordone; azione che ha un impatto negativo notevole, ad esempio sul bilancio del ferro nei mesi successivi, determinando una precoce necessità di integrare in bambini non ancora pronti ai cibi solidi dal punto di vista dello sviluppo biologico e motorio (per approfondire, vedere questo articolo). Ma nello studio di Braibanti si parla anche della “qualità” di questo sangue, e cioè di come esso raggiunga l’ideale equilibrio acido/basico semplicemente limitandosi a non interferire coi delicati ma perfetti processi di riequilibrio che la natura mette in atto alla nascita.
 
Proteggiamo dunque il corso naturale degli eventi, non interferiamo, lasciamo che la fisiologia faccia la sua parte e che parto e nascita si svolgano indisturbati: sappiamo ancora troppo poco, e il nostro sapere anche quando è vasto richiede umiltà perché l’evolversi delle conoscenze getta nuova luce anche su ciò che già si conosce, aprendoci a una maggiore comprensione e rispetto.
Antonella Sagone, Marzo 2020

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