Chi ha paura del sole e del vento?

Chi ha paura del sole e del vento?

Piove. Ne ho approfittato per gustarmi una passeggiata scalza. Non c’è niente di meglio che sguazzare nelle pozzanghere (senza il timore di bagnarsi le scarpe e andare poi in giro con i piedi inzuppati e freddi); inoltre con la pioggia i piedi scalzi non si sporcano nemmeno, e appena finisce di piovere si asciugano in un attimo. Per quanto riguarda l’ombrello, anche di quello ho imparato a fare spesso a meno, almeno finché non piove forte: è così scomodo da trascinarsi appresso (tanto che ne perdo uno su due) e poi, quando è bagnato, una volta richiuso ti gocciola sui piedi e non sai mai dove poggiarlo.

Fino a pochi anni fa non l’avrei vissuto così un giorno di pioggia. Avrei reagito come la gente che vedo intorno a me sorpresa dalle gocce di un temporale: gente imbacuccata e trafelata che corre paludata di ombrelli e stivaletti, cercando di sottrarsi come può al tocco di una semplice goccia di pioggia. Un tempo, se pioveva scappavo anch’io al riparo in preda al panico (eppure l’uomo non è solubile in acqua!). Se tirava vento non uscivo di casa. Se c’era il sole, via con gli occhiali scuri e il cappello a larghe tese.

Una vita impacchettata

L’homo tecnologicus ha voltato le spalle all’aria aperta e alla natura selvaggia, e si è rifugiato fra le rassicuranti pareti di casa, una generazione indoor che non sa più sopravvivere l’estate senza aria condizionata, l’inverno senza i termosifoni a pieno regime. Ci impacchettiamo i piedi in compatti involucri di gomma. Non ci sediamo più a terra, per nessun motivo. Stiamo lì impalati come statuine, non osando entrare in contatto “intimo” con la natura, quasi fosse qualcosa che può solo tagliare, mordere, strappare, pungere.

Persino i bambini, che hanno una naturale connessione con gli elementi naturali, vengono precocemente condizionati. Invece dell’abbraccio umido del terriccio e della vegetazione, del profumo ricco del sottobosco o delle coste salmastre, della generosa commistione di batteri amici di cui il loro corpo ha così bisogno per costituirsi un sano microbioma (per approfondire, leggete questo articolo), ricevono l’asettica carezza di superfici sterili, piatte, lisce, l’acro odore dei disinfettanti e delle profumazioni sintetiche. Presto nemmeno loro sanno più tuffarsi in terra fra la polvere, i prati e i ruscelli, per poi tornare a casa sudati, infangati e appiccicosi di vita. Sono stati dissuasi fin da piccoli: non toccare, è sporco… non correre, sudi… non ti sedere in terra, non è igienico… non ti rotolare sui prati, ti macchi i vestiti… non ti scoprire, ti ammali…

Ecco, tanta avversione per gli elementi naturali credo nasca proprio da questa sistematica disassuefazione: la nostra pelle è talmente disabituata al tocco di qualcosa che sia altro da noi stessi o dai nostri vestiti, che quando ci succede la sensazione ci sembra strana, allarmante o disgustosa… sono talmente rare e le occasioni per vivere a stretto contatto con la natura, l’abbiamo sigillata così bene fuori dei nostri appartamenti, che quando ci accade di essere sfiorati da una ventata o da un ramo fronzuto ci spaventiamo di tanta intimità.

Abbiamo eretto tante barriere: scarpe, vestiti, ombrelli, pareti. Portare addosso vestiti tutto il tempo disabitua la pelle del corpo al contatto: chi comincia a praticare il naturismo o il barefooting, camminare scalzi, lo sa bene. Stare nudi inizialmente è una strana impressione fisica, camminare scalzi le prime volte è fastidioso o doloroso: sulla nostra pelle non siamo più abituati a sentire sensazioni tattili diverse da quelle della stoffa (o della spugna insaponata di bagnoschiuma).

Homo pandemicus

La recente e traumatica esperienza sociale della pandemia ha inciso solchi ancora più profondi, instillando la falsa idea che “là fuori” ci fosse il nemico, e la sicurezza si potesse trovare solo fra quattro mura. “Io sto in casa”, ci è stato martellato per settimane e settimane, mentre ogni individuo che si avventurasse nel mondo selvaggio per una solitaria escursione veniva assimilato al nemico. L’ossessione per l’igiene, di cui la nostra società era già impregnata grazie a decenni di pubblicità martellanti di detergenti, che promettevano una vita “libera dai germi”, è stata ulteriormente e viene tutt’ora rafforzata, andando ben oltre la razionale assunzione di precauzioni contro i contagi e permeando ogni passo della nostra vita.

Il disvalore della distanza, del distacco, già presente nel vivere quotidiano con la tanto esaltata ricerca della totale “indipendenza” fisica ed emotiva, praticata e imposta fin dall’infanzia come una virtù da certi metodi pedagogici che imponevano l’abitudine a una separazione precoce del bambino, è stata rafforzata tragicamente dal lock down e dalle norme emergenziali sul distanziamento sociale, che azzerano i segnali espressivi del volto, nascosti da una maschera, e vietano la connessione emotiva del tocco rigenerante e l’abbraccio portatore di empatia e inclusione.

Ecco, forse, il motivo di tanta ritrosia e disorientamento è più antico e più profondo. Spiegherebbe perché con tanta facilità la gente ha rinunciato al contatto “a pelle” non solo con la “materia” del mondo naturale ma anche con gli altri esseri umani.

Non è solo il contatto con gli elementi della natura che ci coglie da sempre impreparati: è il contatto in genere. Siamo stati allevati con metodi pedagogici alienanti, incentrati sul distacco, sulla separazione, sull’apprendistato alla solitudine e all’autarchia emotiva: in particolare, chi ha avuto figli negli anni ’50 e ’60 aveva il divieto esplicito degli “esperti” di prenderli in braccio e coccolarli, quale che ne fosse il motivo. Allora forse questo timore, anche ora che la Natura ci è stata di nuovo concessa, di essere sporcati, bagnati, spettinati o feriti non è che paura del contatto sulla pelle, del calore dei corpi e dell’affetto, dell’umidità delle emozioni, del soffio della vita istintiva… paura di venire “contaminato” dalla vita, che ci hanno insegnato a tenere sotto controllo e a rendere asettica e semplificata.

Ma la vita non è né semplice né controllabile; è complessa, ridondante, selvatica, contagiosa.

Ci hanno insegnato a chiuderci alla vita, a difenderci dal mondo: i vestiti, le scarpe, che ci avvolgono costantemente, divengono una protezione, una corazza, un “contenimento” rassicurante, anche se innaturale, che supplisce a quello naturale degli abbracci che non ci siamo, o non ci hanno, concesso quando ne avevamo più bisogno.

Riaprirsi alla vita

Se la nostra pelle non ha dimestichezza con il tocco di altri esseri umani, o a stento ha avuto quello dei nostri genitori quando eravamo bambini; se oggi, nella nostra vita adulta, il contatto diretto pelle a pelle si riduce (o si riduceva?) a una stretta di mano frettolosa ogni tanto e si limita ai brevi momenti di intimità degli amanti; se persino un abbraccio fraterno è sentito con sospetto e disorientamento, allora la nostra specie sta perdendo per strada qualcosa di veramente fondamentale.

Proprio per questo credo che camminare scalzi, praticare il naturismo, riprendere confidenza con i nostri sensi e con l’intensità delle sensazioni ed emozioni che ci arrivano quando facciamo “vivere” il nostro corpo, sia una parte essenziale e centrale della rivoluzione, interiore e non, che possiamo condurre per recuperare la connessione con la vita.

Riconnetterci alla matrice biologica del nostro corpo e del nostro ecosistema, ritrovare il continuum perduto non è impossibile.

È un processo che può essere compiuto in modo semplice, a piccoli passi.

In questo percorso di recupero potremo provare nuovamente la gioia di sentire il vento sulla pelle, il freddo che ci stimola a muoverci e a respirare profondamente, la pioggia che ci picchietta con un tocco dolcissimo sul viso. Ed è impressionante l’enorme varietà di sensazioni diverse che si può provare andando scalzi: dal ruvido asfalto al prato umido, morbido e fresco; dal sentiero tiepido, asciutto e polveroso di campagna, con i suoi piccoli sassolini, alla carezza sensuale del fango freddo, morbido e scivoloso… è un poema scritto con milioni di passi!

Anche i nostri compagni animali possono guidarci e re-insegnarci a non avere paura del vento, la pioggia, il fango, l’erba, la sabbia e il sole forte.

E i nostri bambini? Sono naturalmente “in contatto”, non tarpiamo le loro ali selvagge! La loro presenza vicino a noi è un grandissimo dono, se solo sapremo metterci in sintonia con loro e permetteremo loro di guidarci e insegnarci, anzi: di aiutarci a ricordare. Metterci sulla loro lunghezza d’onda, seguirli nel loro spontaneo muoversi nel mondo, può aiutare noi adulti a recuperare quella dimestichezza e quell’intimità così preziosa con la natura, che anche oggi ci chiama con una voce calda e carica di promesse.

Antonella Sagone, 17 luglio 2020

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