Allattamento: come proteggersi dalle critiche
Il latte materno dopo i primi mesi è acqua. Però se il bambino non mangia cibi solidi, è perché il latte di mamma lo sazia troppo e bisogna negarglielo.
Nei primi giorni inutile attaccarlo, il latte non c’è. Però se ti viene un ingorgo bisogna prendere le pasticche per mandare via il latte o i seni ti scoppieranno.
Allattare fa tanto bene alla donna perché limita le perdite di sangue e fa contrarre bene l’utero. Ma se il ciclo poi non torna si deve svezzare, o utero e ovaie si atrofizzeranno.
L’allattamento come anticoncezionale? Mappercarità. Ma se non torna il ciclo bisogna svezzare, o non resterai mai incinta.
Se il bimbo è piccino, il latte non è nutriente e bisogna integrare. Ma se è un torello, bisogna integrare perché per la sua costituzione ha bisogno di più cibo e il latte non può bastargli.
Se non ha ancora messo un dentino, è chiaro che è in carenza perché il latte è insufficiente. Ma se ha messo un dentino, è chiaro che è ora che mangi qualcos’altro.
Se ha messo i dentini, dunque, è segno che deve passare ai cibi solidi. Quindi diamogli delle pappine frullate e diluite.
Se non è allattato, e si sveglia la notte, diamogli il ciuccio, così si riaddormenta e il problema è risolto. Ma se è allattato, non diamogli il seno o si incoraggiano i risvegli, è per quello che si sveglia.
Se allatti secondo la richiesta del bambino, lasciando che sia lui a scegliere quando e quanto poppare, stai ostacolando la sua autonomia. Se invece gli imponi orari e quantità fisse e se chiede fuori orario non lo accontenti, lo rendi indipendente.
E così via.
Il bello è che queste idee squisitamente opposte convivono felicemente nel pensiero dello stesso gruppo culturale, a volte della stessa persona, senza che l’incongruenza venga minimamente percepita.
Per la mamma che allatta c’è un solo modo per sopravvivere a tanta confusione: accorgersi del meccanismo perverso, e riprendere a pensare con la propria testa.
Sulla mia pagina Facebook ho lanciato la domanda su come fronteggiare le critiche e ho avuto dalle mamme tantissime risposte! Sull’onda di questo dibattito ho effettuato poi una diretta (che potete vedere qui) proprio su come fronteggiare le battute allarmistiche o critiche che si ricevono così spesso.
Perché le critiche mettono così in crisi?
Il motivo per cui le critiche a una mamma che allatta mettono tanto in crisi è perché si innestano su un substrato culturale che già di per sé non sostiene l’allattamento, specie dopo i primissimi mesi. Nel precedente articolo: Perché tante critiche sull’allattamento al seno? Si analizzano alcuni dei motivi per cui tanta gente si sente spinta a criticare, osteggiare o instillare dubbi nei confronti di una donna che allatta: la valenza erotica del seno per la nostra cultura, lo standard della “normalità” tarato sull’alimentazione artificiale e al biberon, e le esperienze personali di non allattamento, a volte anche generazionali, che interessano tanto le persone comuni quanto gli specialisti che consigliano i genitori. Queste insicurezze instillate sottotraccia sfuggono al vaglio razionale ed entrano “in risonanza” quando un genitore riceve una critica riguardo all’allattamento del suo bambino.
Ecco in proposito le considerazioni di una mamma che ha subito il classico (e non richiesto) ammonimento, corredato di tragiche previsioni catastrofiche, per stare allattando una bimba di nemmeno due anni:
Ci ho messo due giorni a uscire dalla sensazione del “Ommioddio cosa ho fatto??” e del “Ma come è possibile? Il nostro allattamento non è morboso, la bambina certe volte mi dice anche no alla tetta quando vuole fare altro, mangia bene, peso perfetto, va in bagno, fa pipì… Come può essere sbagliato?”. Mi immedesimo nelle madri che come me si sono sentite dire cose che già percepivano come assurde, ma che – ehi! – venivano da un professionista, e hanno messo in dubbio un ottimo equilibrio perfettamente funzionante. Provo molta tristezza al pensiero, perché io sono una persona dl carattere forte e ho sempre ribattuto ai vari parenti e conoscenti che dicevano scempiaggini, ma di fronte al professionista mi sono sentita inerme. Immagino cosa debbano provare le persone con un carattere più mite del mio…
Anche se si è bene informate, non fa piacere ricevere commenti critici, allarmistici, svalutanti o derisori da parte di professionisti autorevoli ai quali ci si è affidati, magari per altri aspetti della propria salute o di quella del bambino. E se i ragionamenti e i consigli ricevuti sono contraddittori, causano disorientamento e indeboliscono la forza della persona che li ascolta, rendendola più dipendente dall’esperto. Se l’indicazione è contraddittoria, qualsiasi cosa fai in risposta, sbagli. Ti senti inadeguata e incompetente e sempre più bisognosa di consigli.
Consideriamo poi che nella nostra cultura la relazione medico-paziente è spesso asimmetrica, di tipo paternalistico, e il paziente di per sé è poco abituato a dialogare col professionista in termini collaborativi, ma spesso delega al sanitario tutta la responsabilità della sua salute, mentre da parte del medico spesso c’è un approccio direttivo e prescrittivo, di scarso ascolto, che rende ancora più difficile da ambo le parti una comunicazione schietta e non difensiva.
Se si ha bisogno di sostegno, di comprensione, di informazioni o aiuto competente sull’allattamento per bilanciare informazioni e consigli sgraditi e inopportuni, se si vuole aiuto per trovare il modo migliore per comunicare con i propri medici curanti, una Consulenza in allattamento può essere utile (per informazioni vedere qui).
Usare il traduttore automatico
Il primo passo per emanciparsi dal disorientamento, confusione, rabbia, ansia, disperazione, sensi di colpa e di inadeguatezza ogni volta che il proprio operato viene messo in dubbio, è capire perché e da dove nasce tanta avversione verso le pratiche amorevoli di accudimento dei bambini, in primo luogo l’allattamento ma anche altro, come dormire col bambino, tenerlo in braccio, coccolarlo, consolarlo quando piange.
Qui vorrei mettere l’accento soprattutto su un fatto: la tenerezza e l’intimità che c’è fra una mamma e il suo bambino (che allatta ma non solo) è spesso capace di scatenare negli altri intense reazioni emotive. Le paure, le negazioni difensive, i dolori nascosti dell’esperienza di essere madri o di essere figli, tutto ciò può entrare in risonanza in modo più o meno cosciente e far scattare il bisogno urgente di “aggiustare le cose”.
Marshall Rosemberg, il fondatore dell’approccio della Comunicazione non violenta, usa la metafora della giraffa e del coyote per descrivere due diversi modi di comunicare, il primo empatico e non violento, il secondo violento e giudicante. Nella visione di Rosenberg, tutte le persone quando comunicano in realtà stanno dicendo solo due possibili cose: “Per favore” e “Grazie”. Tuttavia, alcune persone lo dicono in una forma così distorta, a causa della loro sofferenza interiore, da venire fuori in modo violento e poco comprensibile. Parlano il linguaggio del coyote e non quello della giraffa.
Essere consapevoli di questo fenomeno ci aiuta a non farci emotivamente coinvolgere subito ad ogni osservazione altrui, diventando reattivi e scivolando su una posizione difensiva.
Dobbiamo semplicemente imparare a tradurre il linguaggio del coyote in quello della giraffa. Trasformare la frase giudicante o violenta nel linguaggio delle emozioni e dei bisogni che si agitano sotto la superficie delle parole. Installiamo nella nostra testa la App di traduzione automatica e vivremo più serenamente!
Il primo pensiero che dobbiamo tenere sempre presente quando riceviamo una critica o un giudizio è il seguente: chi ci parla di noi, sta piuttosto parlando di se stesso. Questo significa che quando qualcuno fa un’osservazione su come accudiamo nostro figlio, quella frase non ci sta fornendo informazioni su di noi, ma sull’altra persona: quella persona sta cioè esprimendo cosa pensa e come si sente di fronte al nostro modo di accudire nostro figlio. Anche quando esprime questi pensieri ed emozioni in modo assolutistico, drastico, accusatorio.
Possiamo essere in accordo o in disaccordo con il contenuto di questi messaggi; ma anche quando siamo in disaccordo, possiamo provare ad accettare dentro di noi le emozioni che accompagnano certe esternazioni del nostro prossimo, senza scivolare in una posizione difensiva.
Uscire dalla posizione difensiva
Provate a uscire dalla posizione reattiva quando sentite questo tipo di commenti. Avete di fronte persone che sono state probabilmente ferite, truffate, trascurate, defraudate come madri, padri o figli. Persone che non sanno nulla di come funziona l’allattamento nel suo stato naturale. Che magari per anni hanno attuato o consigliato approcci lontanissimi da quello che ora viene loro mostrato. Si aggrappano a convinzioni e pregiudizi che sappiamo essere inconsistenti, ma possiamo scegliere il modo in cui reagire, prima di tutto interiormente. Possiamo indignarci, certo, voler discutere, oppure fuggire, mortificarci, ignorare. Sono tutte strategie per fronteggiare messaggi poco rispettosi o poco gentili. Ma possiamo anche scegliere di dare testimonianza di un modo diverso di essere e di vivere la maternità. Con semplicità e franchezza. Commentare “Vedo che questo fatto che io ancora allatto ti sorprende/turba/preoccupa…” e poi “…ma per noi è proprio quello che ci vuole in questo momento / per me è meraviglioso, siamo così felici”. E se l’altro o l’altra cerca il conflitto: “Vedo che su questo argomento abbiamo punti di vista completamente differenti”.
Con un sorriso sereno, con tono rilassato, non piccato o sprezzante. Senza avere timore di esprimere la propria felicità, sicurezza, benessere per stare allattando.
Con gentilezza. Perché non sappiamo nulla di queste persone. Non sappiamo che battaglie stanno combattendo. Una donna che dichiara che allattare le fa senso, può aver subito ad esempio abusi nell’infanzia, e non è detto nemmeno che se ne ricordi. Una donna che si aggrappa a giustificazioni assurde per il non aver allattato, piuttosto che vedere quanti ostacoli si sono frapposti fra lei e il suo bambino, forse con quegli ostacoli ci convive ancora, e sta proteggendo se stessa e altre persone da un grande dolore e rabbia.
Ho conosciuto mamme che hanno pronunciato quelle frasi, ma che hanno poi allattato un secondo o terzo bambino, una che ha allattato solo l’ottavo figlio! Essere trattate con rispetto è un diritto di tutti, anche se si dicono sciocchezze. Senza voler convincere nessuno, se continuate a dare una testimonianza diversa, con semplicità, qualcosa arriva.
Proteggersi attraverso la condivisione
Ogni anno a livello internazionale la prima settimana di agosto (ma qui, in Italia, di ottobre) è dedicata all’allattamento al seno (per maggiori informazioni vedere le iniziative per la SAM – settimana dell’allattamento materno). Il tema di quest’anno è quanto mai pertinente a questa problematica; infatti è Proteggere l’allattamento al seno: Una responsabilità da condividere.
I due concetti dietro lo slogan della SAM di quest’anno sono entrambi di importanza cardinale. La protezione dell’allattamento è uno dei tre pilastri su cui si reggono tutte le raccomandazioni dell’OMS: protezione, promozione e sostegno. Ma mentre è facile farsi belli con dichiarazioni di intenti, magnificare la bontà del latte materno promuovendolo a parole; mentre non è difficile anche dare sostegno con iniziative, incoraggiamento, apprezzamento verso le donne che allattano, proteggere l’allattamento è un’azione molto più impegnativa, radicale, profonda: perché si tratta di cambiare atteggiamento, di astenersi da quel “fare” che non aiuta ma interferisce, significa tenere a bada quella paura “che qualcosa vada storto” che spinge tanti operatori a scivolare in una modalità “cautelativa” e a sostituirsi alla fisiologia, introducendo correttivi “tanto per sicurezza” – quel biberon di troppo, quelle regole nei tempi e nelle quantità che danno l’illusione di tenere tutto sotto controllo, quel paracapezzolo a correggere un seno del tutto normale, quella tisana o quella crema miracolosa che mantiene l’illusoria sicurezza di un approccio prescrittivo invece che, appunto, protettivo dalle interferenze.
Ma ecco il secondo termine così importante della SAM di quest’anno: la condivisione. Un concetto che si può applicare proprio a tutti: alle madri, alla popolazione, agli operatori sanitari e alle figure di sostegno.
Condivisione, per gli operatori che affiancano la donna che allatta, può significare cercare sinergie, fare rete, condividere conoscenze ed esperienze, costruire un linguaggio e un approccio comune e multidisciplinare che fornisca alla madre e al bambino un sostegno coerente.
Per la mamma che allatta, la condivisione è lo strumento che permette di uscire dalla solitudine e dal disorientamento. Finché si è sole di fronte al commento allarmante, squalificante, minimizzante, si può essere sopraffatte dal senso di inadeguatezza e di colpa, con la sensazione di essere l’unica a cui succedono queste cose, ed è facile cadere nella paura del giudizio delle altre, che sembrano tutte più brave e competenti di noi. Che leggerezza scoprire che invece la propria situazione è comune a tante altre! Quando leggo i commenti alle mie Top Ten mi si allarga il cuore a vedere come fiorisca l’empatia e la solidarietà. Piovono gli “Anch’io”, “È successo anche a me”. Si condividono frustrazioni, lacrime e risate. Si crea di nuovo quel villaggio, quella rete di sostegno, quel tessuto sociale che ogni donna e bambino, allattato o meno, avrebbe diritto di trovare intorno a sé. Ecco perché il gruppo (sul social, ma anche e ancora di più di persona) è così importante: perché offre quella protezione che solo il calore della comprensione e dell’empatia può donare.