L’allattamento al seno è un tema controcorrente

L'allattamento al seno è un tema controcorrente

Oggigiorno, laddove il “mainstream” ci mostra una normalità fatta di bilance, orologi, biberon e orsacchiotti, dare il seno, o sostenere la mamma che sceglie di farlo, significa fare una piccola rivoluzione che va ben oltre il gesto di nutrire un bambino.

Mainstream

Questa è una di quelle parole, capolavoro di sintesi, che invidio all’Inglese. Letteralmente significa la “corrente principale”. In senso lato, è il comune modo di pensare, quello della maggioranza. Con il mainstream il comportamento medio si fa normalità, e la normalità si fa norma, regola.

Il nostro mainstream è la cultura di una maternità fatta di regole, attrezzature, misurazioni, controlli – non come semplici strumenti ma come scelta morale, parametro di riferimento di cosa è o non è normale, cosa è giusto o sbagliato, unità di misura e pietra di paragone di ogni allattamento, di ogni madre e ogni bambino. Sono strumenti, regole, linguaggi, oggetti che sono penetrati in profondità nel nostro quotidiano: uso dei biberon e ritmi e dosi dei pasti sono ormai un sapere collettivo, cognizioni padroneggiate da tutti, che unificano il professionista e l’uomo della strada.

 

A fronte di questo bisogno di definire e controllare, l’approccio centrato sul bambino e i segnali che manda, che accudisce in modo flessibile, con il seno e con le braccia materne, che accoglie a stretto contatto il bambino allo stesso modo il giorno e la notte, è percepito come inguaribilmente selvatico, anarchico, impossibile da incasellare. La cultura del distacco e del controllo non sa e poco si cura di sapere di sonno condiviso, autosvezzamento o allattamento al seno, il quale viene visto un po’ come un processo scontato ma di breve durata, oppure come una moda, un optional di lusso che chi vuole e può si gode per qualche mese, ma che in fondo non incide particolarmente sul benessere del bambino, e anzi dà spesso grattacapi. L’idea che il latte artificiale “in fondo è ugualmente adeguato” è ben radicata nella nostra cultura: un’idea rassicurante e ben confezionata in un guscio accattivante, che tiene al riparo la mente di molti operatori, impedendo loro di prendere atto dell’inadeguatezza delle informazioni comunemente diffuse, e delle conseguenze pesanti che i consigli da esse derivati possano causare a livello sia individuale che di salute di popolazione.

L’idea che allattare sia un fatto di fortuna, casuale, eccezionale, ma che il biberon di formula sia in vece una certezza, la normalità e in fondo quasi la stessa cosa, porta alcuni operatori a non tentare nemmeno di incoraggiare e sostenere la mamma nel suo allattamento – anzi a volte viene direttamente scoraggiata. Non per malafede, anzi spesso c’è il desiderio di trovare una soluzione immediata alle difficoltà della mamma, una soluzione che abbia un’applicazione certa, quantificabile, affidabile, immediata per “far mangiare il bambino”: ed ecco che si ricorre all’alimento formulato delle industrie, la soluzione più nota e praticata; la soluzione che mette ordine nel caos.

Le buone intenzioni sono solo il primo passo

Molti operatori, comunque – pediatri, ostetriche, puericultrici – sono persone fermamente convinte della bontà di allattare e che pensano di fare il meglio per i loro pazienti. Alcuni di loro dedicano molto tempo ed energie a seguire individualmente le madri che allattano, le incoraggiano tantissimo a parole, utilizzano senza risparmio tutte le “armi” a loro disposizione (farmaci tradizionali e medicine alternative, tisane, paracapezzoli, creme per le ragadi e quant’altro) per alleviare i problemi di allattamenti zoppicanti, senza sapere che spesso questi “rimedi” sono inefficaci o peggiorano la situazione; e si impegnano in quella che considerano una battaglia giusta seppure fatalmente con scarse possibilità di successo, investendoci anche molto tempo ed energie perché conoscono l’importanza del latte materno e desiderano il meglio per i loro pazienti. Queste persone, a volte con decenni di pratica alle spalle, sentono di non avere nulla da rimproverarsi e ci rimangono molto male – per non dire seccati, offesi, feriti – quando si insinua che ci siano enormi lacune da colmare sulla semplice conoscenza della fisiologia della lattazione. Anche se il concetto di educazione continua in medicina è ormai legge, e nessun operatore si sente squalificato quando gli si propone un aggiornamento sulla patologia del neonato, l’idea di dover tornare a studiare l’ABC del normale allattamento al seno viene sentito come mortificante; come se anni e anni di esperienza e di sforzi fossero stati vani e mal riposti.

Se questi sentimenti risultano comprensibili a livello umano, non è invece accettabile, a livello di sistema sanitario, che si continui a tollerare che nel campo della salute femminile (e dei lattanti) esistano tali sacche di ignoranza. La conoscenza del normale andamento dell’allattamento materno non può essere considerata una curiosità, una spigolatura, una nota di colore della cultura medica. Se ci fosse una simile mancanza di sapere riguardo alla terapia del diabete, o all’igiene dentale, tanto per dire le prime due cose che possono venire in mente, si griderebbe allo scandalo; ma mentre all’informazione puntuale sulla prima ci pensano le industrie farmaceutiche e sulla seconda quelle dei dentifrici, sull’allattamento materno quale azienda è interessata a tenere aggiornati i medici? Una conoscenza che emancipa madri e bambini dalle industrie degli alimenti sostitutivi, dalle attrezzature per l’alimentazione artificiale, e in ultima analisi, con il suo apporto di salute, anche dai servizi della medicina e della farmacologia… a chi giova, se non alle neo-mamme e ai neonati, cioè agli elementi più “improduttivi” della società?

Qualcosa sta cambiando

Qualcosa però sta lentamente cambiando. I corsi 20 ore dell’OMS sull’allattamento, che non sono che il primo passo, quello delle informazioni di base, cominciano ad essere inclusi nei percorsi formativi di ostetricia e di infermieristica, e richiesti all’interno delle aziende ospedaliere. Alcuni ospedali sono riusciti ad effettuare il processo che li ha accreditati come Ospedali Amici dei Bambini, il cui secondo passo richiede la formazione di tutto il personale sanitario (di cui il 20 ore è lo strumento principale). E c’è persino una facoltà di medicina (Siena) che, nell’ambito della scuola di specializzazione in pediatria, ha incluso un progetto innovativo di formazione approfondita (primi in Italia) sull’allattamento al seno.

Le informazioni corrette, dopo tre decenni in cui pochi si sono dati molto da fare, hanno cominciato a diffondersi anche attraverso i canali più istituzionali e i media, sebbene spesso siano mescolate ancora con una quantità di sciocchezze. Nessuno più sostiene che le poppate vanno fatte ogni 4 ore e mezzo, come, ricordo, si diceva negli anni ’70. Nessuno più afferma che il neonato nelle prime 24 ore non ha bisogno di poppare e va lasciato a digiuno perché deve smaltire i liquidi in eccesso. Nessuno più ha il coraggio di dire, almeno non ad alta voce, che il latte artificiale fa crescere i bambini più sani e più forti di quello materno. Anzi, molti operatori oggi sanno che il bambino può essere attaccato male e magari conoscono la posizione sottobraccio o altre prese ancora più raffinate; conoscono l’esistenza del dispositivo per l’alimentazione supplementare (per dare la giunta al neonato mentre poppa al seno materno); conoscono la differenza fra “primo” e “secondo” latte; hanno accettato, seppure in maniera parziale e distorta, la filosofia dell’allattamento “a richiesta”; alcuni sono anche informati sulle più recenti ricerche.

Quello che molti di loro non sanno ancora fare, è aiutare la mamma. Non sono in grado di analizzare una poppata o una suzione, riconoscerne l’inefficacia e correggerne le impostazioni errate. Non sono in grado di stimare correttamente il trasferimento di latte e a volte sottovalutano o sopravvalutano i problemi. Non sanno trasmettere le nuove conoscenze alla madre. Non sanno elaborare insieme a lei la strategia appropriata per aiutare quel neonato, per salvare quell’allattamento. Non sono a volte in grado neanche di diagnosticare con precisione un problema di allattamento, di fare un’anamnesi che li conduca nella giusta direzione. Analizzare la storia di un allattamento in crisi è un percorso tortuoso e labirintico in cui ci si può facilmente perdere, specie se si pensa di avere già tutte le risposte e si è fermamente convinti della bontà di certe soluzioni. Se si ha fretta di offrire la soluzione, si perde l’accesso a una risorsa immensa: la madre e il neonato. Le informazioni non fluiscono sempre facilmente dalla mamma in difficoltà verso l’operatore sanitario, e la comunicazione può facilmente bloccarsi senza che nessuno se ne renda conto.

Migliorare la comunicazione fra genitori e operatori

I veri bisogni, paure, aspettative delle madri il più delle volte non vengono nemmeno espressi al medico, per il timore (spesso fondato) di essere troppo frettolosamente giudicate, sgridate, equivocate. I consigli del medico a volte non vengono compresi, recepiti, seguiti. Alla fine molte mamme, per sopravvivere in una cultura che mette in dubbio continuamente la loro competenza,  mentono ai pediatri, facendo loro credere di aver seguito le indicazioni mentre hanno invece trovato una soluzione personale, più o meno efficace, che permettesse loro di salvaguardare cose per loro importanti quanto l’aumento di peso del bambino, ma difficili da spiegare. E i pediatri, privati del “feedback” dei loro pazienti, continuano ad andare avanti con gli stessi consigli, convinti di fare bene. L’operatore sanitario, proprio per la sua formazione, tende a intervenire immediatamente con una risposta “terapeutica”, quando nel caso di un allattamento in difficoltà gli si chiede a volte tutt’altro tipo di intervento, per il quale nulla l’ha preparato. Così molti pediatri non ascoltano abbastanza e si affrettano ad offrire “soluzioni” a donne che, a volte, avevano chiesto loro soltanto di essere rassicurate e sostenute nella strategia che avevano scelto.

Questi operatori, sinceramente desiderosi di aiutare, si impegnano più del dovuto e moltiplicano gli sforzi insieme alle mamme, ma spesso nonostante tutto l’allattamento declina, e si rafforza il pessimismo e la frustrazione. I più arditi fra loro sfidano il giudizio dei colleghi e si avventurano senza sostegno in una terra ignota, abbandonando i vecchi criteri e le vecchie strategie che, seppure in genere erano d’ostacolo per la maggioranza degli allattamenti, pure tenevano al sicuro da possibili contenzioni legali perché fedeli ai protocolli; ora a volte l’operatore ha realmente difficoltà a sentirsi sicuro di quello che fa, e certe volte gli mancano gli elementi di informazione e di esperienza per puntellarsi, per muoversi bene mentre sperimenta con la mamma le “nuove” strategie.

Solo se gli operatori sono molto ostinati e molto fortunati, riescono a trovare e intraprendere il giusto percorso formativo, e poi hanno la forza di modificare la prassi di anni di pratica (il che non è facile) e di sperimentare quello che per loro è un campo totalmente nuovo; e così, con mesi e anni di esperienze differenti, cominciano a scoprire un nuovo mondo che gli offre una visione finalmente reale dell’allattamento umano, dotandoli nello stesso tempo di nuovi strumenti per aiutare e sostenere le madri.

Fortunati può significare, ad esempio, che fanno parte di un’Azienda illuminata che rende loro accessibili occasioni di formazione e aggiornamento adeguato; oppure che conoscono l’inglese e sanno navigare in Internet abbastanza bene da trovarsi da soli le fonti di aggiornamento attendibili; molti, più di quanti si possa immaginare, si pagano la formazione di tasca propria.

La solitudine di chi opera controcorrente

Ma certo questi non sono nel mainstream. Soffrono dello stesso isolamento e incomprensione che patisce la mamma che allatta più dei canonici 6 mesi. Sono spesso tacciati di essere talebani dell’allattamento, proprio come accade a quelle mamme. La scelta che hanno compiuto complica loro la vita, perché l’organizzazione sanitaria, sul territorio e in ospedale, non è fatta per i medici che vogliono sostenere gli allattamenti più di quanto lo sia per le mamme e i bambini che vogliono attuarli. Devono combattere con protocolli inappropriati, o con l’assenza di protocollo. Si trovano spesso sulla difensiva con i colleghi, i quali a volte percepiscono il loro approccio come una muta critica nei loro confronti, un mettere in dubbio la propria professionalità – proprio come le mamme che allattano al seno a volte ricevono reazioni difensive dalle mamme che danno il biberon, e che si sentono messe in discussione solo perché loro invece continuano l’allattamento, magari per molti mesi. Mancano, ancora, di un linguaggio adatto per descrivere la normalità dell’allattamento materno.

Questa normalità, pezzetto per pezzetto, dovremo costruirla un po’ tutti insieme, madri e operatori, abbattendo tutte le barriere che impediscono di percepire ciò che stiamo facendo per quello che è: consentire che si realizzi pienamente il modo di accudire il bambino che la natura assicura alla specie umana – offrire il seno e le braccia materne finché il piccolo non mostri di non averne più bisogno.

Antonella Sagone, 26 marzo 2022

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