Morte e nascita, passaggi e non lacerazioni
“Ma siamo sicuri che quello lì dentro è proprio mio padre?”
Questa la domanda di una figlia che, come tanti di questi tempi, si è vista riconsegnare il suo genitore in una sacca di plastica sanificata e sigillata.
Motivo di questo trattamento disumano, un tampone positivo.
Persone care accompagnate in ospedale a volte per i primi sintomi influenzali, altre volte per motivi completamente diversi: una gamba fratturata, un intervento programmato agli occhi, un’ustione a una mano.
Salutate all’ingresso… e mai più riviste, se non nel sacco di plastica.
Questo succede nel nostro civilissimo XXI secolo, in cui la cura dovrebbe essere più che mai incentrata sulla persona, e non sui corpi, dei vivi o dei morti.
La dipartita di una persona cara è un processo doloroso che inizia prima del momento della morte e che continua dopo, in chi è rimasto, un percorso interiore che dura a volte per tutta la vita. Una transizione che ha bisogno di tempo, rispetto, discrezione, ma anche di intimità, di una cornice protettiva che permetta di salutarsi e di trovare un senso profondo a questo evento così definitivo.
Quando mio padre morì, potei stare al suo capezzale, assisterlo e assistere al processo della morte che prendeva possesso del suo corpo. A quel tempo facevo come psicologa tirocinio in sala parto, e non potevo fare a meno di trovare delle analogie in quel travaglio del corpo che doveva abbandonarsi per lasciar andare via la sua essenza, e l’altro travaglio del corpo materno che doveva lasciar andare nel mondo una nuova vita.
Ho potuto vegliare le sue spoglie e avere un’intimità e una riservatezza che mi hanno permesso di dirgli cose che in vita non ero riuscita a dirgli. Ho avuto la possibilità di accettare la verità assoluta di questo evento, toccare con mano un’assenza, pur in presenza di un corpo. Metabolizzare l’amore, il dolore, il rimpianto e la tenerezza di un legame che era stato difficile e pieno di intensità e di vuoti.
A quante persone, oggi, è concesso un simile privilegio? A quanti individui, giunti al termine della loro vita, è concesso di essere circondati dalle persone care mentre si accingono al più misterioso dei cambiamenti? Sembra che l’unica preoccupazione della sanità di oggi sia quella di attuare protocolli che non sono che rituali per esorcizzare la paura della morte, anche a prezzo di negare la vita, l’amore, le emozioni che di questo evento inevitabile fanno parte.
L’attuale cultura sembra avere in odio tutti i momenti di passaggio, e volerli trasformare in tagli netti, cesure, strappi che riducano, fino a renderle impalpabili, tutte le ambiguità, le incertezze, le sfumature. Un taglio netto, e non ci si pensa più! Parti indotti prima del termine naturale, nascite seguite da separazioni routinarie fra madre e neonato, bambini svezzati da un giorno all’altro, inserimenti a scuola frettolosi e drastici, lutti perinatali minimizzati e negati, e morti rese (solo formalmente) asettiche dai rituali della medicalizzazione: tutto questo c’era anche prima dell’evento pandemico che tutto ha esacerbato, rendendo queste transizioni ancora più nette, gestite nel contenimento degli affetti e nell’isolamento dei corpi.
“Siete sicuri davvero che qui dentro ci stia mia madre, mio marito, mia sorella?”
Anche al momento della nascita, troppo spesso un processo di transizione diventa strappo, cesura. Donne a cui il bambino viene “tolto” dal corpo senza alcuna possibilità di ritrovarsi nel contatto fisico immediato, nell’intimità, nell’allattamento. Neonati che scompaiono dal campo visivo della madre che li ha appena partoriti e, nel migliore dei casi, ricompaiono dopo minuti che sembrano ore, puliti e vestiti. O nel peggiore dei casi, rivisti solo ore e ore dopo, con una fascetta al polso di entrambi come unico attestato di appartenenza reciproca, proprio come quelle persone care, dentro i sacchi sanificati, hanno come unico attestato di appartenenza un documento di accompagnamento.
E anche nel caso delle madri, lo stesso interrogativo: “Ma siamo sicuri che questo qui sia proprio mio figlio?”
Un approccio sanitario pavido e difensivo ha generato protocolli che standardizzano anche quei momenti, come la nascita e la morte, che per loro natura sfuggono ogni definizione e schema fisso. Protocolli che sono sostanzialmente strumenti di disimpegno morale, di depersonalizzazione delle responsabilità, non solo per quanto riguarda gli aspetti legali, ma anche riguardo alla responsabilità dei sentimenti.
La vita e la morte non possono essere protocollati. Sono parte di un continuum di emozioni e di connessione essenziale, di interdipendenza, che non può essere spezzato, se non al prezzo di una perdita di significato dell’esistenza stessa. Una perdita di quel ritrovamento e riconoscimento reciproco necessario quando, nella relazione di due individui, si attraversa un importante momento di passaggio. Che sia una nascita oppure una morte.