Allattare: fino a quando?
Nella nostra cultura sta tornando a crescere il numero di madri che allattano i loro figli oltre i primi mesi, o forse semplicemente aumenta il numero di donne che non nascondono il loro allattamento di bambini che non sono più neonati, ma camminano e parlano.
Questo viene spesso visto come qualcosa di insolito, di inappropriato o di non consigliabile. Quando si è di fronte a un bambino o una bambina allattati non per mesi, ma per anni, in genere le domande che vengono poste sono due:
- fino a quando è utile allattare? e
- fino a quando è appropriato e salutare l’allattamento?
Queste domande sottintendono l’idea che dopo un certo momento l’allattamento possa essere una pratica inutile e, forse, dannosa. A volte non si tratta di sottintesi, ma di critiche esplicite che la madre, se allatta seguendo la richiesta del bambino, deve fronteggiare.
Fino a quando allattare è necessario, o quantomeno utile?
A questa prima domanda si può intanto rispondere: perché mai dovremmo togliere alla mamma e al bambino un qualcosa di “inutile”, se è gradito? Anche la banana o l’insalata sono “non indispensabili”, ma non per questa ragione si fanno pressioni ai genitori perché non se ne dia più al bebè dopo i primi mesi… se è per questo, non si fa pressione per togliere ai bambini nemmeno prodotti veramente inutili, come la caramella o la merendina. Perché allora togliere loro il latte materno appena questo fosse (e così non è) inutile o “non più indispensabile”?Tutte le ricerche d’altronde mostrano che il latte materno è benefico e salutare a tutte le età, e a prescindere dalla durata dell’allattamento viene sempre prodotto con tutti i nutrienti e i preziosi fattori non nutritivi che ne fanno molto più di un alimento 11: un sistema di sostegno biologico per l’intero organismo e per la salute presente e futura del lattante 7.
Va ricordato che l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda caldamente di allattare al seno in modo esclusivo per i primi sei mesi di vita, e in seguito affiancare (e non sostituire) i cibi solidi al latte materno, che dovrebbe continuare a essere l’alimento principale per tutto il primo anno 10. L’OMS infine invita a mantenere l’allattamento almeno fino ai due anni di età, specificando che si può continuare ad allattare anche in seguito per tutto il tempo che madre e figlio lo desiderano, poiché questo non è in alcun modo nocivo e anzi il latte materno mantiene, per entrambi, benefici effetti di salute, tanto maggiori quanto più a lungo si allatta 13. Queste raccomandazioni non sono riservate solo ai Paesi emergenti, ma anche a quelli industrializzati, e si rivolgono non solo ai medici od operatori sanitari ma a tutti i soggetti coinvolti: terapeuti, psicologi, magistrati, divulgatori, operatori sociali, volontari, amministratori, governi, aziende, Organizzazioni, nonché le famiglie in generale.
Vengono però spesso sollevate perplessità sull’impatto psicologico dell’allattamento in un bambino o una bambina più grande. Domande, teorie e consigli si moltiplicano, spesso in modo contrastante, da parte dei genitori come degli “addetti ai lavori”: psicologi, neuropsichiatri, medici, pedagogisti, altri operatori e figure di sostegno che affiancano la donna.
Fino a quando allattare è appropriato?
“Poppare è roba da neonati”, si sente dire a volte; e anche “Se ha i denti deve mangiare, e non prendere ancora il latte della mamma”.
Il pregiudizio contro l’allattamento dopo i primi mesi è diffuso anche nei professionisti che si occupano di psiche: psicologi, neuropsichiatri, psicoterapeuti. Le loro posizioni non si fondano su studi o evidenze (a tutt’oggi non ne esistono) ma sono una rappresentazione, nella stessa proporzione, dei preconcetti presenti nella nostra società. Purtroppo, come osserva la psicologa perinatale Alessandra Bortolotti, “questo rappresenta uno dei più grossi
equivoci della nostra professione. Va chiarito, innanzi tutto, che in Italia, nessun corso
di laurea in psicologia, né scuole di specializzazione post-lauream, prevedono
formazione specifica in psicologia perinatale, cioè riguardo i temi del periodo intorno
alla nascita. Ciò significa che nessuno psicologo italiano ha seguito un percorso di
studi istituzionalizzato e specifico sui temi di gravidanza, parto e allattamento“. Si tratta di una lacuna importante, perché l’allattamento è una materia tanto vasta quanto può esserlo l’alimentazione o il sonno.
Un altro problema nasce dal fatto che le posizioni che associano l’allattamento oltre i primi mesi con aspetti patologici nella relazione fra mamma e bambino nascono frequentemente dai dati clinici aneddotici di psicoterapeuti, che hanno a che fare quindi con la patologia. Ma sappiamo che per valutare correttamente l’associazione fra due fenomeni dobbiamo utilizzare come norma i dati che emergono dalla fisiologia. In altre parole, quello che manca spesso è un approccio salutogenico, incentrato sui processi fisiologici come standard di riferimento. Non è un caso che proprio materie come appunto l’allattamento, il sonno, l’alimentazione siano pressoché escluse dai percorsi formativi sanitari, perché sono tutti e tre aspetti della fisiologia; e non è un caso che i maggiori contributi su queste aree ci vengono non da psicologi o neuropsichiatri, ma da antropologi, cioè studiosi che sono abituati a basarsi sull’osservazione sul campo, e che hanno ampliato la loro visione avendo esperienza di società e culture molto diverse fra loro.
Non bisogna aver paura di una parola. “Lattante” significa semplicemente bambino che ancora poppa il latte della mamma. Non ha connotazioni morali, o di livello evolutivo, o di età. È come dire “anglofono”: chi parla inglese. È la cultura ad aver stabilito arbitrariamente una linea a una certa età, dicendo che fin lì va bene essere lattanti, dopo non va più bene e non è più normale. Questa linea viene tracciata in un momento diverso della vita a seconda della cultura e della società a cui si appartiene. Da noi la visione riduttiva dell’allattamento come un mero sistema per nutrire il bebè, e l’idea errata che i cibi solidi vadano inseriti non come complemento ma in sostituzione delle poppate, ha fatto coincidere l’idea di lattante con quella del neonato che poppa esclusivamente al seno, cioè che si nutre solo di latte; tracciando questa linea molto, molto prima di quando fisiologicamente il bambino umano si svezzi dal seno in natura. Si ha l’idea che il latte materno venga prima, e poi sia sostituito dal cibo solido, e quindi “Basta latte”. Ma non funziona così, né negli umani, né nelle altre specie mammifere. A un certo punto il cucciolo inizia a mangiare, ma poppa ancora; e poi diminuisce le poppate fino a perdere interesse. Nella specie umana, l’antropologa Katherine Dettwyler ha identificato questo momento fra i 3 e i 7 anni 9. Quando non si interferiva, era così che succedeva: il periodo dell’allattamento finiva più o meno con la fine della prima dentizione e l’eruzione dei primi denti permanenti. Per questo li hanno chiamati denti da latte: perché coincidono con il periodo in cui i bambini ancora cercano il seno e poppano.
Se l’allattamento dopo i primi mesi fa bene, dove sono le prove?
Tante volte si chiedono a gran voce le “prove scientifiche” dei benefici psicologici (o meglio della “innocuità”) dell’allattamento che dura più dei primi mesi, o “addirittura” per diversi anni.
A questo link si trova una bibliografia parziale di circa 200 voci sui benefici dell’allattamento oltre i primi mesi, raggruppati per tipologia; e su questa pagina dell’OMS invece, accompagnata da un’ampia bibliografia, si legge questa considerazione sui benefici a lungo termine:
L’allattamento continua ad apportare un importante contributo nutrizionale ben oltre il primo anno di vita, fornendo una significativa fonte energetica e provvedendo nutrienti cruciali per la crescita del bambino. Studi nei Paesi in via di sviluppo hanno mostrato che un allattamento prolungato e frequente è associato con una maggiore crescita in altezza e protegge ulteriormente la salute del bambino ritardando la fertilità materna dopo il parto e riducendo il rischio, per il bambino, di mortalità e morbidità. L’allattamento prolungato può anche prevenire la disidratazione nei soggetti che stanno riprendendosi da un’infezione”.
Comunque, più dura nel tempo l’allattamento, meno esistono studi che ne documentino gli effetti sia dal punto di vista della salute fisica, sia ancor più di quella psicoaffettiva. Ci sono studi che mostrano una relazione dose-risposta fra allattamento e salute, ma non si spingono in genere oltre il secondo o terzo anno, e spesso si limitano ai sei mesi. Però è ragionevole pensare che la relazione dose-risposta fra durata dell’allattamento e benefici di salute si mantenga tale anche per età successive.
Gli studi sull’allattamento possono essere solo retrospettivi, osservazionali, su base epidemiologica, dato che non si può obbligare una madre o un bambino a scegliere di interrompere o proseguire l’allattamento, non sarebbe etico ma soprattutto non sarebbe fattibile perché, per fortuna, sono i bambini a decidere se poppare ancora o interrompere, e sono le madri che decidono se dare o meno la loro disponibilità e concedere il seno.
Condurre uno studio con soggetti più avanti di età incontra la difficoltà di raccogliere un numero significativo di casi, anche se qualche ricerca esiste, e può rassicurare sapere che non vi sono studi che mostrino, a qualsiasi età, la dannosità dell’allattamento. Per bambini molto grandi ci sono solo dati aneddotici, e già questi possono rassicurare, dato che raccolgono un ampio numero di casi di adulti psicologicamente sani che sono stati allattati nell’infanzia oltre il secondo anno e, a volte, anche per 6-8 anni. Comunque possiamo fare una riflessione di tipo antropologico e guardare alle popolazioni nelle quali ancora oggi allattare molti anni è considerato normale, e che producono adulti nel range della normale salute mentale. Possiamo anche osservare come nelle generazioni passate, quando allattare per anni era la normalità, non vi era una maggiore incidenza di patologie: anzi, per certi versi, la presenza “epidemica” di certe patologie attuali, come la depressione, le dipendenze, i disturbi dell’alimentazione, sembra coesistere con la prevalenza di allattamenti di breve durata e di stili di accudimento basati sul distacco e l’autonomizzazione precoce.
La riflessione cruciale da fare, quando ci si pongono domande e si imposta uno studio, è chiedersi qual è lo standard di riferimento e qual è la deviazione da questo standard. Così come non si richiedono le prove di “non nocività” del respirare aria pulita, ma si studiano semmai i possibili danni dell’inquinamento o del fumo, allo stesso modo non si dovrebbero richiedere le prove dei rischi di allattare finché lo si desidera, ma si dovrebbero studiare semmai i possibili danni organici e psicologici dell’interrompere questa relazione prima che si estingua naturalmente da sé.
Allattare al seno è la norma biologica, affinata da milioni di anni di evoluzione 1, e in società non ancora disturbate da norme e limiti specifici imposti al legame madre-figlio, questo si esprime normalmente con anni di allattamento al seno, sonno condiviso, cure prossimali (ad esempio portare in braccio o in fascia, coccolare, contatto pelle a pelle), introduzione dei cibi solidi sotto forma di condivisione dei cibi della famiglia e in modo informale e autoregolato dal bambino, e infine svezzamento spontaneo dal seno in un’età compresa in genere fra il terzo e l’ottavo anno. A questo punto, ci si dovrebbe interrogare, più che sulla salubrità o sicurezza o appropriatezza di questa modalità di accudimento, sulla salubrità, sicurezza e appropriatezza di un’interferenza di questi processi, che si esprime ostacolando attivamente le cure prossimali o riducendole drasticamente nei modi e nella durata, e forzando precocemente al sonno separato, allo svezzamento dal seno, all’alimentazione solida, alla separazione fra madre e bambino.
In poche parole, ponendo l’allattamento al seno come norma biologica, si dovrebbe dare per scontato che questo sia benefico e salutare come qualsiasi processo fisiologico. Infatti non ci sono studi che mostrino un danno nell’allattare oltre i primi mesi, senza contare che tale pratica è tutt’ora diffusa in buona parte del mondo, e lo è stata anche da noi fino a due o tre generazioni fa.
Esiste una correlazione tra allattamento “prolungato” e sviluppo di disturbi della sfera sessuale o abusi sessuali?
Vi sono alcuni studi (USA, Thailandia, Russia) che mostrano come il non allattamento al seno o la sua precoce interruzione (nel primo semestre di vita) sia associata a una proporzione significativamente più alta di bambini abbandonati, negletti, oppure fisicamente o psicologicamente maltrattati 2,16. Non stiamo parlando specificamente di abusi sessuali, e la relazione fra questi ultimi e un allattamento oltre i primi mesi non è stata comprovata dalle ricerche.
Dal punto di vista psicologico, gli abusi sono un fenomeno complesso e multifattoriale, e non si possono fare facili generalizzazioni, ma si deve valutare il caso individuale senza basarsi sul presupposto che un certo comportamento, avulso dal contesto in cui si verifica, sia di per sé sintomo di un disagio o una disfunzione. Certo, le relazioni disfunzionali esistono e così anche i disturbi della sfera sessuale; ma vanno visti caso per caso, e allattare non può essere inteso come un indicatore del disagio psicologico, più di quanto non lo possa essere inteso il prendere in braccio o baciare il bambino, perché tutti questi sono gesti naturali e coerenti con la natura della relazione madre-figlio nei primi anni di vita.
Nella nostra cultura siamo propensi a restringere il significato di sessualità alla sola relazione di coppia, e minimizzare o negare ogni altro aspetto della sessualità femminile che non implichi la presenza del partner. Ma la vita sessuale della donna si snoda in una serie di eventi dei quali soltanto uno richiede la presenza del proprio partner sessuale. Gravidanza, parto, allattamento sono condizioni mediate spesso dagli stessi ormoni, che modulano la sessualità femminile in tanti modi. L’ossitocina, detta anche ormone dell’amore, guida molti di questi momenti, generando le contrazioni uterine non solo nell’orgasmo, ma anche durante il parto, e innescando il riflesso di emissione del latte ogni volta che il bebè poppa al seno. Il rilascio di questo ormone, spesso associato alle endorfine, genera sensazioni di estasi, piacere, tenerezza e di fatto permette ai legami affettivi di sbocciare e di consolidarsi. Per questo motivo l’ossitocina viene anche definita ormone pro-sociale, perché rafforza i legami fra gli individui e quindi mantiene coesione all’interno del gruppo umano, con un’enorme valenza dal punto di vista della capacità del gruppo di sopravvivere 17.
Il problema della nostra cultura è che spesso gli aspetti della sessualità e dell’amore che non riguardano la relazione di coppia vengono ignorati o negati. La sessualità fra uomo e donna diviene non solo il modello di riferimento, ma anche l’unico modello possibile per definire le tante facce dell’amore.
Allora ecco che l’intimità e il piacere che stanno dietro una relazione di allattamento possono mettere a disagio, ed essere travisati e definiti come “morbosi”, invece che essere visti per quello che sono: mirabili e delicati strumenti che la selezione naturale ha messo a punto nei mammiferi, per garantire le cure parentali e la coesione fra gli individui.
Gli abbracci e le carezze degli amanti sono presi in prestito dai gesti di amicizia. Il bacio nasce come gesto materno nel passare il cibo premasticato al proprio piccolo. Qualsiasi zona sensibile del corpo può essere coinvolta nell’attività sessuale fra due partner, qualsiasi gesto, anche mutuato dai comportamenti amicali, parentali o filiali, può essere incorporato nei giochi erotici, ma non per questo deve venire acquisito come esclusivo dell’erotismo di coppia! È la nostra cultura ad attribuire significati sessuali ed erotici al seno, dimenticando che esso è in primo luogo l’organo per accudire e nutrire i bambini.
Così come la relazione fra una madre e il suo bambino non ha nulla a che fare con una relazione coniugale, allo stesso modo l’intimità e il piacere fra loro non hanno nulla a che fare con la connotazione erotica che caratterizza una relazione di coppia. Questo dato di realtà non cambia con il crescere del bebè: un bambino ai primi passi continua a non fare distinzioni qualitative fra seno e braccia della mamma, fra latte e coccole, e non vede certo il seno, di punto in bianco al compimento del secondo o terzo anno di vita, trasformarsi in un accessorio erotico femminile, bensì continua a considerare la poppata come una fra le tante modalità attraverso le quali ottenere conforto e nutrimento e mantenere il contatto e la vicinanza con la mamma.
Nello stesso modo, per la madre l’atto di allattare non cambia connotazioni solo perché il suo piccolo parla o cammina: rimane sempre lo stesso gesto di accudimento materno, un gesto che, spero sia ben chiaro questo punto, non parte dalla madre ma risponde a una richiesta del bambino. Non vi sono connotazioni “sessuali” in senso adulto nel gesto di allattare; nessuno studio può dimostrare legami fra abuso sessuale e allattamento, essendo l’abuso infantile legato anzi a un’incapacità di interpretare correttamente e rispondere ai bisogni e ai sentimenti del bambino, laddove l’allattamento si fonda proprio su questa capacità di comprendere adeguatamente i segnali dei piccoli, e su legami di attaccamento sicuro e funzionale.
Non vi sono nemmeno studi che mostrino una relazione fra allattare oltre i primi mesi e sviluppo nel bambino di disturbi nella sfera della sessualità nell’adolescenza o l’età adulta: di nuovo qui si sta proiettando il fantasma dell’incesto in una relazione che è fisiologica e prevista dalla natura.
Se un disagio psicologico può verificarsi in una madre e un bambino che portano avanti oltre l’anno la loro relazione di allattamento, questo potrebbe essere semmai imputato alla dissonanza fra le aspettative sociali e culturali e ciò che naturalmente madre e figlio sentono giusto e spontaneo fare, cioè continuare ad allattare fino al termine naturale; e sono semmai le pressioni, i giudizi e l’opposizione attiva della società intorno a loro, che continua a mandare messaggi di disconferma e squalifica, a far sentire il bambino “sbagliato” e la madre insicura, inadeguata o perversa, instillando in lei il dubbio di nuocere a suo figlio.
Per un bambino o una bambina sentirsi dire: “Ma come, ancora poppi? Sei grande ormai!” non ha alcun senso: infatti poppa secondo ciò che in quel momento è, secondo l’età che ha e la fase evolutiva in cui si trova, e l’allattamento non è per lui o per lei (e non lo è per la fisiologia umana) un atto legato esclusivamente ai primi mesi di vita.
Allo stesso modo, per una donna che, ad esempio, risponde alla richiesta di sua figlia offrendo il seno, sentirsi dire “Sei tu che la vuoi costringere a poppare per mantenerla piccola, è a te che piace, sei egoista a non volerla svezzare” è ugualmente privo di senso e concordanza con il suo sentire e la sua esperienza: infatti la madre sa più che bene come sia impossibile imporre a un bambino riluttante di poppare, e sa quanto la propria disponibilità a concedere il seno sia un gesto che va oltre i suoi personali bisogni e risponda invece a quelli di suo figlio.
Quindi semmai la domanda potrebbe essere: qual è per il bambino e per la mamma l’impatto psicologico di una cultura sessuofobica (e sessualizzante rispetto al seno), qualora si effettui allattamento a termine?
È la madre a trattenere suo figlio nella relazione di allattamento, non essendo pronta a “lasciarlo crescere”?
Questa insistenza a puntare il dito sulla madre quando un bambino ai primi passi, o anche più grande, chiede di poppare al seno, denota la poca conoscenza e comprensione di come funziona una relazione di allattamento.
In realtà il bambino è il solo che può avviare e poi mantenere un allattamento. Mentre bere da un biberon (che viene introdotto in bocca e dal quale il latte sgorga per forza di gravità), essere imboccato, essere vestito o lavato sono esperienze passive, poppare è sempre un’azione attiva: se non è il bebè a poppare, e a farlo nel modo corretto, il latte dal seno non esce. Allattare non è qualcosa che la madre fa al bambino, ma qualcosa che il bambino fa alla madre. Ogni madre sa bene cosa avviene se cerca di far poppare al seno un bimbo che non ne ha voglia: se è piccolo, girerà la testa dall’altra parte, o piangerà, o popperà per poco tempo e in modo poco efficace. Se è grande, protesterà con ancora maggiore chiarezza: “No, voglio la mela!”, oppure concederà, per compiacenza, pochi secondi di suzione per poi staccarsi e andare allegramente a fare qualcosa che gli interessa di più in quel momento.
Certi manuali, e certi approcci pedagogici, forzano la madre ad arrovellarsi inutilmente, cercando di capire quale sia il momento “giusto” per dare il seno e quale sia invece quello “sbagliato”, o a cercare di interpretare il pianto del bambino per dare “la risposta appropriata e non sempre il seno”. In realtà l’allattamento, non potendo essere “imposto” (diversamente da altre azioni di accudimento, come imboccare o mettere il golfino di lana), offre alla mamma questa meravigliosa semplicità di poter tentare per prima l’offerta del seno, senza tema di essere riduttive o ripetitive, perché se il bebè poppa, significa che il seno risponde al bisogno, mentre se non è la risposta giusta, non popperà.
La nostra società non è più abituata alla vista di un bambino ai primi passi che va al seno, e rimane sconcertata. “Insolito” diviene “anormale”, e si pensa che sia impossibile che un bambino o una bambina possa normalmente desiderare il seno perfino quando ha qualche anno. Come logica deduzione, si attribuisce quindi alla madre la responsabilità di allattare. Ho sentito spiegazioni incredibilmente contorte per spiegare il normale e fisiologico fenomeno di un bambino grande che va al seno: “In realtà sei tu che ti senti minacciata da un senso di abbandono se tua figlia matura e si emancipa dal seno, e quindi desideri che resti come una piccola neonata che vuole ancora poppare; e tua figlia ti chiede il seno perché percependo questo tuo bisogno è protettiva nei tuoi confronti e asseconda il tuo desiderio inespresso”.
Perché tanta complicazione? Il filosofo del XIV secolo Guglielmo di Ockham, attraverso un principio logico noto come il “rasoio di Ockham”, tutt’ora alla base del pensiero scientifico moderno, afferma che nel formulare una spiegazione vanno evitati tutti i postulati inutili: in altre parole, la spiegazione più semplice tende a essere quella giusta. Se il bambino di uno, due, tre o più anni quindi chiede di poppare, forse, semplicemente lo fa perché in quel momento desidera poppare!
La mamma che allatta oltre i primi mesi è semplicemente succube di suo figlio?
A volte si dipinge la madre che allatta a termine come una persona fragile, ansiosa, debole, che cede alla richiesta del bambino semplicemente perché non ha la forza di dirgli di no. Le mamme che allattano oltre i primi mesi, in realtà, sono in genere madri forti e volitive, in quanto capaci di opporsi alle pressioni esterne che la esortano a “staccarsi” dal figlio. Sono sensibili e attente ai segnali che il bambino manda, ai suoi sentimenti e bisogni, e resistono a chi le incita a non rispondere a questi bisogni e sentimenti. Inoltre sono perfettamente capaci di dire no alla richiesta di una poppata, o al prendere in braccio, o al giocare insieme e quant’altro. Nell’arco della giornata, capita tante volte che si debba dire di no o dare dei limiti, semplicemente perché in quel momento ciò che viene richiesto non è fattibile od opportuno. Allattare non è che una fra le tante possibili interazioni fra madre e bambino, e dire al proprio figlio, ormai abbastanza grande per capire (e anche a volte per discutere e contrattare), “Adesso no perché sono stanca” oppure “Adesso no perché devo finire di cucinare”, è un’esperienza abituale che anche le madri che allattano compiono più volte durante la giornata, e anche rispetto alla richiesta di poppare. Quello che queste madri non trovano necessario o giusto fare è dire ai loro figli di no anche quando non vi sono motivi contingenti per rifiutare il seno, in nome di un principio pedagogico astratto e non dimostrato. “No perché sei ormai grande” è un concetto vago, arbitrario e incongruo non solo per il bambino, ma anche per sua madre, che conosce bene i bisogni di suo figlio e sa che, quando sarà il momento, il bisogno di poppare svanirà da solo così come altri bisogni infantili.
A volte le mamme parlano con malinconia o rimpianto del fatto che il bambino si sta svezzando. Apriti cielo! Ciò viene subito addotto come “prova” del fatto che l’allattamento parta da un bisogno materno invece che da una richiesta del bambino. Ma bisogna distinguere. Queste mamme stanno esprimendo un sentimento molto umano. Dicono “Non credo di essere pronta per la fine della relazione di allattamento”: non dicono “Farò di tutto per impedire che questa relazione finisca”. Quindi prima di balzare alle conclusioni che si tratta di madri che non vogliono far crescere i loro figli, fermiamoci un attimo ad ascoltare veramente, e distinguiamo i sentimenti e i bisogni dalle intenzioni e i comportamenti.
Io credo che noi genitori non siamo mai pronti ai balzi in avanti dei nostri figli. Ci adeguiamo a una fase, ma loro vanno sempre oltre, sono sempre in evoluzione. Siamo noi che corriamo loro dietro e ci adattiamo, anche con gioia e orgoglio, ma nello stesso tempo ogni volta è un salto nel buio ed è l’abbandono di un equilibrio precedente, che è stato anche bello e gratificante. La donna non è mai veramente pronta a diventare madre: è sempre un atto di coraggio e di fede dare la vita a un altro essere umano, con tutte le incognite che ci sono. Si dice addio alla vita spensierata con una punta di rimpianto, ma anche di entusiasmo per la nuova avventura. La gestante non è mai veramente pronta a partorire: ha paura, ma quando arriva il momento, partorisce! E se non la si disturba, è un momento attivo, di grande potenza vitale. E così quando un figlio fa i bagagli e va a vivere da solo, credete che, anche in una relazione parentale sana e matura, la madre sia pronta? Le mancherà la sua presenza quotidiana in casa. C’è un po’ di malinconia. Ma non viene trattenuto. E la relazione si evolve come quella fra due adulti. Una cosa sono i sentimenti, una cosa sono gli atteggiamenti. Essere consapevoli dei nostri sentimenti e accettarli ci aiuta a non esserne influenzati quando dobbiamo scegliere come rapportarci ai nostri figli che cambiano e si evolvono.
Allattare oltre i primi mesi rende i bambini più fragili, insicuri, dipendenti?
Gli studi sulla relazione fra durata dell’allattamento e adattamento sociale o salute mentale mostrano una relazione positiva dose-risposta, cioè più a lungo il bambino viene allattato, più appare ben adattato dal punto di vista relazionale e sociale. Il Tavolo Tecnico sull’allattamento al seno del Ministero della Salute, in un suo documento sull’allattamento di lunga durata, conclude con queste parole:
“Si desidera sottolineare in maniera chiara che l’allattamento al seno di lunga durata non
interferisce negativamente sulla progressione dell’autonomia del bambino e sul benessere
psicologico e/o psichiatrico della madre. Eventuali documentati disagi psicologici o vere
patologie psichiatriche del bambino e/o della madre non hanno con l’allattamento al
seno un rapporto di causa-effetto, ma sono eventualmente e semplicemente da
intendersi come contemporanei ad un allattamento al seno che si prolunga.
Risulta al contrario ben provato che l’allattamento al seno contribuisce al benessere
cognitivo, emotivo, familiare e sociale del bambino, aggiungendosi al peso determinante
dei fattori genetici, delle competenze allevanti familiari e dei fattori socio-economici”.
La teoria dell’attaccamento di John Bowlby mostra che il legame fra madre e figlio si articola fra contatto e distanza autoregolandosi, e adeguandosi nel tempo ai bisogni del piccolo che cresce 19.
Una base affettiva sicura si realizza quando il bambino non viene forzato al distacco prima che sia pronto a gestirlo emotivamente 6.
Il bambino che si è adattato precocemente a “far da sé”, placando i suoi bisogni affettivi in modo autoconsolatorio, non è certo quello più autonomo e sicuro: lo è piuttosto quello che è stato accudito senza limitazioni per tutto il periodo in cui ne ha manifestato il bisogno 14.
Paradossalmente, spesso si misura l’indipendenza in base a dove e come una persona dorme, a fino a quando è allattato, o peggio, a quanta tenerezza scambia con i suoi genitori: come se l’amore fosse una malattia… ma non si va mai a vedere quando, come e quanto i bambini, “resi indipendenti” facendoli adattare al sonno solitario o svezzandoli dal seno, abbiano avuto la libertà di mangiare quello che desideravano nelle quantità che desideravano, prendere decisioni sulla loro vita, vestirsi da soli, coprirsi o scoprirsi secondo il loro senso del freddo e caldo, manipolare oggetti, arrampicarsi e correre liberamente, scegliere chi salutare e chi no, se farsi o no sbaciucchiare dai parenti, se andare o no all’asilo, come gestire il loro tempo libero e i loro giochi.
Una volta tirata una linea che stabilisce fino a che età è accettabile e normale per un bambino aver bisogno di conforto e sicurezza dai genitori, oltre quella linea le sue richieste di poppare, essere preso in braccio, non essere separato dalla mamma in determinati momenti, verranno definite come un “sintomo” di immaturità, insicurezza, fragilità o dipendenza. Queste valutazioni possono avere un senso solo se prima si definisce obiettivamente la base biologica e fisiologica dei bisogni infantili, tenendo anche presente la variabilità individuale. Purtroppo la nostra società tira questa linea troppo, troppo precocemente rispetto al continuum dello sviluppo psicobiologico infantile. Questo fa sì che la maggior parte dei genitori entri in ansia quando suo figlio o sua figlia manifesta certi bisogni oltre i primissimi anni, se non mesi, di vita, e che si senta in dovere di forzare un cambiamento verso un comportamento ritenuto più “maturo”.
Proviamo invece a vedere cosa avviene in una relazione di allattamento che proceda indisturbata evolvendosi nel tempo, fino al suo termine, alla sua spontanea conclusione.
I bambini di qualche anno che poppano al seno lo fanno in modo diverso dai neonati; e lo fanno con “stili” molto diversi. Alcuni poppano solo la sera e il pomeriggio per addormentarsi, oppure la mattina al risveglio fanno “colazione” al seno della mamma. Certi a 3-4 anni fanno ancora dei veri e propri pasti al seno, cioè poppate abbondanti, e il latte materno è ancora una componente importante della loro alimentazione. Altri invece poppano saltuariamente, quando hanno voglia, quando si ricordano, se non hanno nulla da fare, sono malati o cercano conforto; ma in altri momenti si dimenticano completamente del seno, anche per più giorni. Altri ancora, quasi fino alla fine fanno poppate molto frequenti ma brevissime, due minuti e via, ripartono alla conquista del mondo, un po’ come quei bimbi vivaci, intraprendenti ma che ogni tanto tornano fra le braccia della mamma per pochi secondi, per “ricaricarsi”.
Ovviamente tutti quanti questi bambini, nonostante gli stili diversi di poppata, fanno normalmente colazione, pranzo, merenda e cena con i cibi solidi. Inoltre tutti quanti, un po’ alla volta, si disinteressano del seno e si svezzano da soli, senza eccezioni, generalmente fra i tre anni e le soglie dell’età scolare.
I bambini che allattano a termine hanno maggiori difficoltà a separarsi dalla mamma e ad inserirsi, per esempio, al nido o alla materna?
Nessun bambino poppa fino all’età adulta, del suo matrimonio o del servizio militare, come si sentono ripetere fin troppe volte le madri che allattano a termine. Eppure, nella nostra cultura molti sono fermamente convinti che i bambini non siano capaci di evolvere autonomamente ed emanciparsi da soli dai comportamenti infantili come dormire coi genitori, poppare al seno, farsi coccolare in braccio… semplicemente perché raramente si aspetta abbastanza a lungo da poter vedere i bambini abbandonare spontaneamente queste modalità di relazione con l’adulto.
La “teoria dell’abitudine”, che attribuisce enorme importanza alle routine a cui il bambino è sottoposto, induce a credere che i bimbi manchino della flessibilità necessaria a modificare le loro aspettative e adattarsi a situazioni e contesti differenti, modulando il modo in cui si relazionano agli adulti diversi dai genitori. L’allattamento, insomma, dipende da quanto la proposta di separazione o l’esperienza del nido sia congruente al momento evolutivo del bambino. Una separazione forzata nel momento in cui non è ancora pronto, o effettuata con una transizione troppo frettolosa e senza la gradualità necessaria, può portare a reazioni di angoscia e rifiuto che nulla hanno a che vedere con il fatto che sia allattato o no 5. Tuttavia il pregiudizio culturale, che vede come anormale l’allattamento dopo i primi mesi, fa sì che qualsiasi problema emergente venga imputato all’allattamento, invece di andare a indagare se c’è qualcosa di inappropriato nella tempistica dell’esperienza di separazione, o magari esista un reale problema ambientale o relazionale nel luogo in cui si pretende che il bambino passi molte ore, lontano dalla sua casa e dalla sua famiglia.
L’esperienza mostra che i bambini ancora allattati che fanno il loro ingresso alla materna si comportano come chi ha un attaccamento sicuro: sono capaci di relazionarsi sia ai coetanei che agli adulti, hanno un buon adattamento e sono spesso maggiormente empatici verso i più piccoli, sono molto collaborativi e socializzano facilmente 3.
Che dire dell’allattamento oltre il terzo anno?
I bambini che si svezzano a 5, 6 e alcuni anche a 7-8 anni non sono forse numerosi come quelli che si svezzano, o sono stati svezzati, verso i 3-4 anni; ma sono comunque molti più di quanto si pensi. Considerando che nella nostra cultura in genere questa opzione riceve numerose critiche, molte madri decidono di svezzare prima del termine o comunque scoraggiare l’allattamento oltre un certo tempo, mentre altre continuano ad allattare, ma non lo vanno a dire in giro. Ecco perché l’allattamento a termine, per anni invece che per mesi, è nella nostra società un fenomeno sommerso. Chi per lavoro però si occupa di allattamento ha modo di venire a contatto con questa realtà nascosta e rendersi conto di quanto sia diversa dallo stereotipo che ne viene rappresentato dalla nostra cultura 8. In Questa FAQ è riportato a questo proposito un parere autorevole. La rappresentazione mostra un allattamento “prolungato” (ma rispetto a quale standard?), morbosità, mamme oppressive e ansiose, bambini fragili e dipendenti. La realtà ci mostra allattamenti a termine (cioè che durano né tanto né poco, ma “quanto basta”, cioè finché il bambino non perde interesse a poppare)15, mamme empatiche e responsive (ma anche rilassate e non soffocanti), bambini sicuri e affettivamente solidi, intraprendenti, con un’elevata competenza sociale, che si sanno autogestire molto bene.
Si accusa spesso la madre di voler mantenere il controllo su suo figlio, per il fatto che la si vede allattare un bambino o una bambina che parla e cammina. La definizione riduttiva di allattamento come un qualcosa che la mamma “fa” a suo figlio, e specificamente per dargli da mangiare, porta a giudicare in questo modo la madre di un bambino grande ancora allattato.
La vera autonomia
Se si accetta il presupposto che i bambini nei primi anni di vita abbiano un intenso bisogno di essere con la mamma o comunque con l’adulto che si prende cura di loro, si è in grado di valutare meglio, e senza preconcetti, i loro progressi emotivi e la loro autonomia su parametri diversi dal tempo che passano lontano dalla madre: come la capacità di relazionarsi autonomamente, di essere assertivi e comunicare con efficacia, l’abilità nel problem solving, l’autoregolazione nel mangiare, nel vestirsi, nel gioco, nell’igiene personale, eccetera) 3. Questi bambini, che la nostra società a due o tre anni può ancora definire “mammoni” o poco autonomi perché poppano o dormono nel letto dei genitori, mostrano invece, su altri versanti, una grande capacità di autonomia, e le loro madri sono in genere più rilassate nel lasciar fare a loro, lasciarli esplorare anche da piccolissimi, senza stargli col “fiato addosso”. Sono in genere ben inseriti al nido o alla materna. Sopportano bene le esperienze di separazione. Più grandi, si affermano professionalmente 18, girano il mondo, con la benedizione delle loro madri.
L’idea perversa, fuorviata della nostra società, è quella di considerare l’autonomia come una qualità negativa (la capacità di fare a meno del sostegno degli altri, di non chiedere vicinanza, contatto, coccole), e non come una qualità positiva (saper fare, esplorare, rischiare, trovare soluzioni personali e originali). Così invece di dare si toglie: invece di incoraggiare il fare da sé, si scoraggia il contatto e l’amore, che di quel fare, di quell’iniziativa personale, sono la base sicura 4.
La vera autonomia si esprime e si manifesta non nell’isolamento, ma nel sistema di relazioni umane. È la capacità di restare centrati sui propri sentimenti e bisogni e comunicarli efficacemente, trovando modi socialmente adeguati di soddisfarli, attraverso il pieno e fiducioso utilizzo delle proprie abilità e competenze. “Indipendenza”, secondo la cultura del distacco e del controllo, è invece una qualità negativa, “non-dipendenza”, intesa come capacità di fare a meno degli altri e di “bastare emotivamente a se stessi”. Si tratta di un tragico fraintendimento, che confonde l’autonomia con il narcisismo, l’autarchia affettiva che, per una disperata sfiducia nel poter ricevere sostegno e amore dagli altri, investe affettivamente su oggetti inanimati e ottiene sicurezza e conforto attraverso il controllo degli oggetti e degli altri individui.
Non bisogna avere paura della “dipendenza” affettiva. Siamo una specie che si organizza in collettività, in cui solidi legami affettivi tengono insieme la famiglia e anche la rete dei rapporti sociali; siamo tutti reciprocamente dipendenti affettivamente gli uni dagli altri perché ci vogliamo bene e ci leghiamo fra noi. Genitori, figli, nonni, amici, amiche, fratelli, colleghi, mentori, anche fra due sconosciuti può scattare la scintilla della comprensione, della solidarietà, dell’empatia e dell’aiuto reciproco: ed è la qualità più bella, gioiosa e nobile della specie umana. Questo, e non altro, è il nostro “vizio”; e prima i bambini lo prendono, meglio sarà per loro, per noi e per l’umanità futura.
Bibliografia
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Mamma di un maschietto di 3 anni e 4 mesi. Da quando ha compiuto un anno vivo sotto lo stress continuo di giudizi ed intromissioni da parte di tutti, appena vedono che cerca il mio seno per ciucciare. Chiunque, dal più stretto dei parenti al più estraneo dei passanti, ha avuto da ridire, alcuni in maniera davvero invasiva o parecchio offensiva. Questo mi ha portato non pochi problemi, soprattutto emotivi, diventando altamente intollerante all’invadenza di qualsiasi tipo, soprattutto da parte dei parenti. In contemporanea anche mio figlio manifesta nervosismo, ma da tutti viene interpretato come stupido capriccio. Ma nonostante tutto siamo ancora qui, uniti da ciò che di più sano e naturale ci sia. Ho trovato il suo articolo illuminante, incoraggiante e soprattutto toccante, perché ha scientificamente analizzato ogni situazione, restituendo dignità ad ogni mamma che ha subito questo genere di pressioni psicologiche. Condividerò questo articolo, con la speranza di dare forza e sostegno ad altre mamme che come me subiscono continue intromissioni. Grazie di vero cuore!❤️
Grazie a te Salvina!
Cerca qualche cerchio di mamme, gruppo La Leche League, mamme peer: fare rete sul territorio è il modo migliore per superare l’impatto negativo di chi vuole importi i suoi pregiudizi. Cambiamo il modello culturale di normalità, facciamo conoscere la fisiologia!
Buongiorno, racconto la mia esperienza che é stata differente tra il primo e il secondo figlio.
Con Sebastian, ero inesperta, ma ci tenevo molto ad allattare, e nonostante le difficoltà iniziali come ingorghi vari, sono riuscita ad allattarlo esclusivamente fino all’ottavo mese. Lui prendeva il ciuccio e il biberon e al compimento dell’anno non si é nemmeno accorto che non gli davo più il seno.
Poi é arrivata Alice dopo sei anni e con lei é stato tutto diverso, adesso ha 3 anni e 5 mesi e prende ancora il seno tutte le volte che lo chiede anche se ci sono giornate che diventa elevata la richiesta, in più quando siamo in mezzo alla gente lei non vuole farsi vedere che prende la titta perché da tutti riceviamo sempre dei commenti e dobbiamo andare lontano da occhi indiscreti. Purtroppo il primo che non ci sostiene affatto é il papà, spesso mi incolpa del mio modo per farla calmare perché quando io non ci sono lui ha difficoltà a farla ragionare (lei ha un bel caratterino) e molte volte mi sento sbagliata per come sto facendo la mamma. Però andiamo avanti lo stesso. Grazie Dottoressa i suoi articoli sono sempre illuminanti grazie mille.
ciao Vanessa!
ogni bambino ha una storia diversa perché ogni volta noi siamo diverse, e perché i bambini hanno indole e caratteri diversissimi fra loro. Non dipende tutto dal modo in cui li cresciamo, li accudiamo, rispondiamo loro; anche se un accudimento sensibile, responsivo, rispettoso dei sentimenti e bisogni del bambino cresce individui sicuri, indipendenti e ugualmente solleciti e generosi verso gli altri. I frutti si vedono col tempo.
Tuo marito come tanti rimane sconcertato da ciò che evidentemente non ha sperimentato nella sua vita. La paura di viziare i bambini è diffusa nella nostra cultura, ma si tratta di un tragico equivoco che si perpetua di generazione in generazione.
Se tu sei più accomodante con tua figlia questo non è la causa ma l’effetto del suo carattere, e non è sbagliato. Sono sicura che potrai far notare a tuo marito come anche a lei darai dei limiti secondo ciò che è ragionevole; ma questo non ha a che fare con l’allattamento, le coccole, l’amore che non possono che essere incondizionati, anche quando a un bambino si dice di no questi non possono mancare.
Cerca gruppi di sostegno per l’allattamento nella tua zona (La Leche League, mamme peer), troverai una comunità in cui finalmente essere te stessa e rafforzare il tuo modo di fare il genitore.
Grazie Dottoressa Sagone. Lei è un faro nella vita di noi mamme! Io allatto da quasi 6 anni mia figlia ed è meraviglioso.
Salve Dottoressa, ho recentemente fatto un’ecografia al seno e sono stata letteralmente aggredita dall’ecografista perché allatto ancora mio figlio di 1 anno e mezzo. Tra le varie cose dette la frase che più mi ha colpito è stata “Che brave queste mamme che pensando alla relazione allattano fino a tre anni e poi però muoiono di cancro al seno perché non possono fare un’ecografia decente! Come si sentirà poi il bambino senza mamma?”. Ho trovato questa frase terribile e pensare che un sanitario che si occupa del seno sia così mi fa venire i brividi…
è veramente molto triste che alcuni operatori non preparati su questo argomento si comportino in un modo non solo inadeguato dal punto di vista professionale, ma anche deontologicamente scorretto. La difficoltà, per scarsa competenza o per ignoranza sugli accorgimenti da prendere per ottimizzare le immagini di un referto, a interpretare il referto stesso non dovrebbe essere scaricata come responsabilità sulla paziente, che ha diritto a ricevere il meglio delle prestazioni sanitarie. Questo atteggiamento poi che pone gli accertamenti diagnostici e l’allattamento come competitivi, spingendo o per lo svezzamento precoce dal seno, o per il rinvio di accertamenti o cure fondamentali, denota purtroppo una sottovalutazione dei benefici enormi dall’allattamento per la salute di madre e bambino, e anche una certa superficialità nell’approccio alla prevenzione. Fortunatamente esistono anche centri e professionisti che correttamente non esitano a fare tutti gli accertamenti diagnostici necessari alla mamma che allatta, senza porla di fronte a inutili e distruttivi aut-aut!
Che bellissimo e interessantissimo viaggio in una dimensione del tutto naturale, ma paradossalmente poco conosciuta! Ammetto che prima di diventare mamma sono stata vittima di alcuni dei pregiudizi sull’allattamento oltre l’anno di vita. Ora ho una bimba di quasi 14 mesi, che sto allattando. La mia prospettiva è del tutto cambiata, ma non nascondo di pormi a volte domande sulla reale opportunità di proseguire questo percorso a tempo indeterminato… Le pressioni sociali confondono le madri e instillano dubbi, ma per fortuna la natura sa guidarci nonostante tutto. Informazioni così chiare, precise, esaustive sono un ottimo supporto per farci proseguire serene per la nostra strada, senza timori. Molte mamme nutrici si sentono a volte etichettare come donne “vecchio stampo”, non al passo coi tempi. Veniamo confuse con un’idea di donna retrograda e poco emancipata: succubi della tirannia dei figli, propense al sacrificio e alla frustrazione della nostra identità lavorativa, veniamo viste più come martiri che come donne libere e realizzate. Non mi sorprende che molte mamme che allattano a lungo lo tengano nascosto, come un’attività clandestina. Grazie per un’informazione che ci riporta a una visione più equilibrata, più consapevole e libera dell’allattamento e della relazione tra madre e figlio. Proprio questa, come spiegato chiaramente, è l’anticamera della competenza relazionale degli individui nella società umana.
grazie per la tua testimonianza! La relazione di allattamento è qualcosa che si ridefinisce giorno per giorno e non ha bisogno di etichette, traguardi o limiti predefiniti. Come sarebbe bello se questo gesto così naturale non venisse più visto come qualcosa che ha bisogno di essere etichettato o spiegato, ma fosse invece restituito alla sua semplicità!
Sono d’accordo. E si trattasse solo di etichettare!! Purtroppo la politica lavorativa attuale mette mille ostacoli alla maternità, alla cura dei piccoli e all’allattamento. Spesso si è costrette a scegliere tra maternità e lavoro. Ma questa è un’altra – più complessa e triste – faccenda…
Buonasera dottoressa, io sono andata sempre oltre ai pregiudizi degli altri, ed ho ascoltato sempre i bisogni di mia figlia.
La mia bimba ha 1 anno e mezzo e continuo ad allattare, principalmente mi chiede il latte appena torno dal lavoro (verso le 18) e la sera prima di andare a dormire.
Ciò però interferisce con il cibo solido e molto spesso preferisce poppare che fare la cena ad esempio..
Quando sono a casa salta le merende e vuole poppare, ho paura della sua crescita, come posso fare?
non sono certo due poppate che interferiscono con l’appetito del bambino. Sua figlia ha innescato qualche dinamica ostacolante riguardo al cibo… Ci può volere tempo, pazienza, e cambiare atteggiamento, cioè smettere di giocare il gioco dell’inseguitore e dell’inseguito. Con una consulenza, si potrà vedere insieme come sono gestiti i pasti (e anche le poppate) per cercare di ricostruire un nuovo equilibrio. Se sei interessata fammi sapere per email.
Antonella Sagone