L’allattamento nell’aula del tribunale (parte I)

L'allattamento nell'aula del tribunale

L’allattamento oltre i primi mesi sta diventando più frequente nella nostra società. Questo ha fatto sì che sempre più spesso il fatto che la mamma allatti un bambino oltre l’anno diviene oggetto di contenzioso legale nel corso di cause di separazione.

Può succedere che questo aspetto venga utilizzato per mettere in cattiva luce la madre, descrivendola come “infantilizzante”, simbiotica, soffocante, persino morbosa.

Può succedere che la mamma si preoccupi del fatto che il bambino, che il giudice ha stabilito passare delle notti col padre, possa andare in crisi in quanto ancora allattato e abituato a riaddormentarsi al seno.

Più volte mi è capitato di seguire madri che allattavano ed erano in via di separazione, e questa situazione si presenta con una certa frequenza. Anche se a volte tutto si risolve in una bolla di sapone (cioè questo aspetto viene considerato non pertinente), il solo porsi della questione sottopone la mamma a una pressione e a un’angoscia logorante. Inoltre, molto dipende anche da come si pongono, rispetto all’allattamento oltre l’anno, le figure professionali che ruotano intorno alla coppia in via di separazione, compreso l’avvocato che difende la mamma! Infatti l’incompetenza rispetto alla fisiologia dell’allattamento, come d’altronde anche l’eccellenza, sono trasversali.

Cosa dicono le linee guida

Che un fatto così normale e fisiologico come allattare un bambino finisca come argomento conflittuale nelle aule di tribunale la dice lunga su quanto la nostra cultura si sia allontanata dalla biologia della nostra specie e quanta ignoranza e pregiudizi siano diffusi fra i professionisti di ogni genere ed area. Ma questo è il paradosso: chi contesta l’allattamento oltre i primi mesi si sente in diritto di farlo senza dimostrare le sue asserzioni, mentre le donne che fanno semplicemente ciò che le nostre antenate hanno fatto per centinaia di generazioni si trovano a dover dimostrare che questa pratica non sia in qualche modo dannosa.

Ma vediamo allora in primo luogo cosa dicono le linee guida delle società scientifiche, delle associazioni mediche e delle istituzioni sanitarie rispetto alla durata ottimale dell’allattamento al seno.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda che l’allattamento inizi entro un’ora dalla nascita, e che sia esclusivo (nient’altro che latte materno) per i primi 6 mesi di vita, dopo i quali vanno introdotti i cibi solidi senza ridurre l’apporto di latte materno. L’allattamento andrebbe proseguito “fino a due anni ed oltre”. 

Un gruppo di società pediatriche, neonatologiche e perinatali nazionali ha espresso gli stessi concetti in un Position Statement, affermando che “L’allattamento fino al secondo anno di vita e oltre ha un’importante valenza di protezione immunologica e nutrizionale” e “ha un suo valore anche per l’esistenza di un rapporto dose-dipendente con la salute materna e infantile”, che significa che maggiore è la durata, maggiori sono i benefici. Inoltre, afferma il documento, “La dipendenza del bambino da sua madre implicita nell’allattamento materno di lunga durata non va confusa con l’autonomia del bambino, che non ne risulta compromessa” (pag. 28).

Il Ministero della Salute, attraverso il Tavolo Tecnico per l’Allattamento al seno (TAS), ha espresso un documento riguardo all’allattamento “di lunga durata”, nel quale biasima come la donna che allatta subisca per questo motivo “una colpevolizzazione senza fondamento”, e lamenta che “Continuamente vengono segnalate situazioni in cui la scelta della donna di allattare al seno nel secondo anno di vita del bambino ed oltre è oggetto di colpevolizzazione se non addirittura di strumentalizzazione giudiziaria come accaduto per controversie in cause di divorzio”. Nel suo messaggio alla società civile il TAS “invita a riconoscere il valore di una scelta naturale, informata e serena della donna che allatta a lungo termine. È una scelta privata, ma che allo stesso tempo ha un preciso valore sociale”. Puntualizza infine, riguardo ai presunti danni psicologici di un allattamento che prosegue nel tempo, che “l’allattamento al seno di lunga durata non interferisce negativamente sulla progressione dell’autonomia del bambino e sul benessere psicologico e/o psichiatrico della madre. Eventuali documentati disagi psicologici o vere patologie psichiatriche del bambino e/o della madre non hanno con l’allattamento al seno un rapporto di causa-effetto, ma sono eventualmente e semplicemente da intendersi come contemporanei ad un allattamento al seno che si prolunga”.

Molto spesso la donna risponde alla stigmatizzazione del suo allattamento citando queste raccomandazioni nazionali e internazionali, studi scientifici, dichiarazioni autorevoli, e la questione astratta se allattare o no dopo i primi mesi diventa il nucleo del contendere, perdendo di vista il punto fondamentale, e cioè il benessere di quel bambino e la transizione di quella coppia che deve gestire una genitorialità divisa.

Dal punto di vista strettamente strategico, come approccio generale, certamente alla mamma possono tornare utili due righe di riferimenti o documentazione sui benefici e sulla legittimità di allattare un bambino grande, tanto per chiarire che allattare oltre i primi mesi è in sé un fatto del tutto normale e anzi raccomandato da organismi nazionali e internazionali.

Tuttavia, come vedremo nella seconda parte di questo articolo, questo dovrebbe essere un passo a latere, e non il nucleo centrale della difesa della donna e del suo bambino.

Colmare le lacune, sfatare i pregiudizi

Bisogna essere consapevoli che nel momento in cui l’allattamento viene trascinato in aula, occorre sfatare il prima possibile una serie di pregiudizi tanto assurdi quanto frequenti, e “tradurre” la quotidianità dell’allattamento in termini descrittivi tali da far capire, a chi non ne sa nulla, di cosa veramente si tratta.

I pregiudizi e i fraintendimenti più comuni riguardo all’allattamento di un bambino oltre i primi mesi derivano da due fattori: il riferimento all’alimentazione artificiale come modello, e la consuetudine a svezzare dal seno molto precocemente il bambino, al più tardi quando inizia a mangiare cibi solidi.

Poiché dare un biberon è un gesto esclusivamente nutritivo, la cui iniziativa parte dall’adulto mentre il bambino riceve in bocca la tettarella e inghiotte il latte, si immagina che al seno sia la stessa cosa. Pertanto una madre che offre il seno a richiesta viene vista quasi come una madre abusante.

La prima informazione da fornire dunque agli stakeholders che si occupano della diade madre-bambino è informarli che l’allattamento è una cosa che il bambino fa alla madre, e non viceversa. La parte attiva della relazione è il bambino, è lui che decide se iniziare una poppata, quando terminarla, ed è lui che estrae il latte attivamente dal seno. Mentre si può forzare un bambino a prendere un biberon, è impossibile tecnicamente ottenere che un bambino poppi al seno se non vuole.

Dato che nella nostra cultura poi i cibi solidi vengono introdotti in sostituzione delle poppate (al seno o al biberon), si ritiene che un bambino per mangiare debba essere “preso per fame” e quindi gli debba venire negato il latte materno, altrimenti non mangerà nulla; e che se assume ancora latte materno non si stia nutrendo affatto di cibo solido. In altre parole, il concetto di allattamento complementare è spesso totalmente sconosciuto nella nostra società.

La seconda informazione cruciale da fornire quindi è che il bambino grandicello che va al seno mangia cibi solidi.

Inoltre, poiché è raro vedere bambini che parlano e camminano andare al seno, nell’immaginario comune chi lo fa si comporta “come un neonato”, e il tipo di relazione di allattamento che c’è fra una mamma e suo figlio di uno o più anni viene immaginato come regressivo, simbiotico, simile a quello che aveva quando quel bambino era un neonato. La terza informazione quindi da fornire ai professionisti che seguono la causa di separazione è informarli che la relazione di allattamento cambia nel tempo, come descrivo nell’articolo “Allattare a richiesta: come cambia nel tempo“, e che la mamma non dice sempre di sì al bambino che gli chiede di poppare, ma gestisce le sue richieste come qualsiasi altra (essere preso in braccio, giocare con lui eccetera).

Per ultimo, poiché nella nostra società l’allattamento viene interrotto precocemente, molto prima di quanto nella nostra specie i bambini si disinteressano spontaneamente dal seno (processo che si conclude in genere non prima dei due anni e a volte alle soglie dell’età scolare), il distacco dal seno viene immaginato come una decisione drastica che necessariamente deve prendere l’adulto, altrimenti il bambino continuerebbe a poppare “per sempre”. L’assurdità di questa idea, e il fatto che non si sono mai visti giovanotti sposarsi, laurearsi o andare militari appena dopo aver poppato dal seno delle loro madri, non scalfisce questo forte pregiudizio. Allora è importante fornire una quarta informazione, e cioè che il distacco dal seno è un processo che viene progressivamente e attivamente realizzato dal bambino.

Per approfondire il tema dell’allattamento di un bambino oltre i primi mesi, e sfatare ulteriormente i pregiudizi anche di tipo psicologico legati a questa pratica del tutto normale, una trattazione ampia può essere letta nel mio articolo “Allattare: fino a quando?“.

A questo punto, il mio suggerimento è di abbandonare il termine generico “allatto al seno”, o parlare di un bambino “allattato al seno”, che rafforza l’idea del ruolo passivo del bambino e non scioglie alcuno dei fraintendimenti descritti sopra.

Suggerisco una serie di frasi chiave che immediatamente chiariscono e descrivono la relazione di allattamento evitando confusione:

– mio figlio mangia regolarmente pasti solidi e a volte va al seno; 
– mio figlio saltuariamente chiede ancora il seno e qualche volta gli dico di no, qualche volta di sì;
– mio figlio sa gestire i momenti di separazione da me durante il giorno e per il momento ha ancora bisogno di me durante la notte;
– mio figlio si sta svezzando gradualmente da solo dal seno.

Nella seconda parte di questo articolo tratteremo alcune indicazioni pratiche su come affrontare il dibattito legale che coinvolge l’allattamento del bambino, e come gestire le disposizioni del giudice rispetto ai periodi di affido al padre e gli eventuali pernotti lontano dalla casa materna.

Per ogni ulteriore informazione e sostegno, la mamma che allatta in una situazione difficile come una causa di separazione in corso può rivolgersi per aiuto anche a una Consulente in allattamento materno.

Antonella Sagone, 12 agosto 2021

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