Quello che ci rende umani

Quello che ci rende umani

«È la natura umana». Quante volte ci siamo sentiti dire questa frase, spesso per giustificare le zone d’ombra dei nostri comportamenti? Quante volte questa frase è stata giustificata per scoraggiare il cambiamento in direzione di maggiore pace, comprensione, empatia fra gli esseri umani? O per giustificare le punizioni dei bambini, suggerendo che i loro comportamenti selvaggi vadano domati a tutti i costi, che se non si interviene a disciplinare i bambini, la loro natura, intrinsecamente ribelle, prevarrebbe per sempre?

Forse è il caso di fare una riflessione profonda su cosa significhi, veramente, essere umani. Qual è veramente la nostra natura, al di là degli stereotipi, dei pregiudizi e dei condizionamenti culturali?

Il senso della vita

Tante volte mi sono chiesta perché sono qui. Rispetto a me stessa, sento di essere qui per imparare, per evolvermi; ma rispetto agli altri penso che per ogni individuo, me inclusa, lo scopo della vita sia quello di realizzare appieno le proprie potenzialità, ciò che di diverso portiamo nel mondo. Se io, proprio io, sono nata, è perché ho qualcosa da dire e da fare che nessun altro può fare al mio posto.

Ma è possibile estendere queste considerazioni oltre l’individuo, e chiedersi che significa evoluzione a livello di specie? Se l’evoluzione ha portato alla comparsa di una specie così strana come gli umani, vuol dire forse che anche l’uomo come specie ha come supremo compito quello di “individuarsi”, cioè di realizzare appieno la sua umanità.

Questa domanda è più che mai urgente oggi, in cui la nostra specie sembra aver raggiunto da un lato un enorme potenziale di incidere sulla vita e l’ambiente del pianeta, e dall’altra sembra invece aver smarrito più che mai il significato della sua esistenza, essere più che mai disconnessa dal suo continuum biologico e aver perso la dimensione conviviale, sociale di sostegno diretto che aveva nel villaggio dei nostri antenati il fulcro del sostegno emotivo, relazionale e di sostentamento.

Siamo a un bivio, e dobbiamo scegliere se continuare a seguire il sentiero predatorio che ci sta lentamente spogliando di umanità (e spogliando il nostro pianeta di equilibrio e risorse) oppure coltivare il sentiero ecologico di connessione con tutto ciò che è vitale, un percorso fondato sulla cura e lo sviluppo pacifico di noi stessi e dell’ambiente intorno a noi.

Uno sguardo da osservatore

Voglio fare un gioco. Provo a guardare l’uomo come se fossi un extraterrestre che non conosce le lingue umane e deve decifrare le peculiarità di questa strana specie, esclusivamente da ciò che vede. Vado a guardare in particolare ciò che ci rende speciali, differenti dagli altri “progetti” (specie) presenti su questo pianeta.

Vedo un essere che cammina goffamente su due sole gambe, privo di pelliccia e di corazza e non dotato di armi d’offesa. Se siano così inermi, vuol dire che la violenza non è la nostra strada per dirimere le difficoltà né all’interno della nostra specie, né all’esterno – verso le altre specie, o la natura in quanto ambiente di vita.

Non siamo nati per vincere grazie alla velocità, la forza o l’affilatezza delle nostre unghie o denti.

I nostri denti sono buoni a spezzare semi, macinare granaglie e mordere frutti; molto meno a strappare carne da un osso o mettere in fuga un predatore.

Le nostre unghie sembrano adatte a grattare via la scorza dura di qualche radice, o forse a catturare e schiacciare efficientemente le pulci, piuttosto che a ghermire qualche preda.

A guardare le nostre mani appare evidente che manipolare il mondo, è indubbio, è una nostra caratteristica. E forse questa parte è una delle poche a cui l’umanità, nel suo percorso evolutivo, ha dato il via libera.

L’uomo ha una mimica facciale superiore a quella di ogni altra specie, e due occhi frontali che permettono una raffinatezza di visione ed anche favoriscono l’interazione visiva, la relazione. Ha il linguaggio, ovvero il potere di evocare nella propria mente (e in quella di chi ascolta) ciò che non è materialmente presente. Ha la scrittura, unico modo di lasciare un messaggio dopo essersene andati, al di là del vecchio sistema delle tracce odorose. Tutto questo fa degli esseri umani una specie altamente sociale e creatrice di cultura.

Per l’essere umano la vita solitaria è un’anomalia; gli umani tendono a vivere costantemente in un gruppo più o meno numeroso di individui, per tutta la loro vita.

Continuiamo la nostra osservazione naturalistica. La femmina umana non ha periodi di estro, ovvero la sua disponibilità sessuale è possibile in ogni periodo del ciclo, anche in quelli non fertili. Questo significa che la sessualità ha cessato di essere un comportamento ristretto finalizzato alla procreazione, ed ha assunto una funzione sociale, di rafforzamento dei legami affettivi. Oltre il sesso si è generato l’amore.

Un’altra differenza dell’uomo rispetto agli altri mammiferi è la cessazione del ciclo, e quindi della fertilità, a circa due terzi della propria vita; come dire che per quasi la metà del ciclo vitale (se si conta anche l’infanzia fino alla pubertà, che è altrettanto tardiva) le femmine della specie contribuiscono alla vita del gruppo con qualcosa che non ha a che fare con la loro capacità riproduttiva. Al declino fisico negli anziani, di entrambi i sessi, si affiancano nuove abilità che sono preziose per il gruppo.

Nella nostra specie è presente un altro fenomeno unico: alla gestazione in utero segue un’esogestazione fuori dell’utero. Ciò significa che i piccoli umani nascono prematuri (anche quelli “a termine”) a causa della voluminosità del loro cranio, e necessitano di un periodo di simbiosi fisica prolungato per poter sopravvivere. Le donne hanno un forte istinto a tenersi vicini i loro cuccioli per anni e anni, e sono attratti da loro e desiderosi di contatto, almeno quanto i loro figli, per tutta l’infanzia.

Ashley Montagu, antropologo, osserva come la specie umana abbia molte caratteristiche neoteniche, cioè mantenga in età adulta caratteristiche tipiche dell’infanzia. Ciò è vero sia dal punto di vista fisico (struttura del viso) sia psicologico (capacità di giocare), per fare solo due esempi. Per lui questa tendenza è da coltivare ed è il vero significato dell’essenza umana: mantenersi flessibili, giocosi, curiosi, empatici.

Se siamo dotati di queste caratteristiche, insomma, se questo è ciò che ci rende umani, allora la strada che come specie dobbiamo percorrere per realizzare appieno il nostro potenziale deve per forza passare attraverso questi aspetti.

Dove e quando abbiamo deragliato?

La nostra maggiore “specialità”, la cultura, ci ha portato spesso, nel bene e nel male, molto lontano dalla strada che avremmo percorso seguendo semplicemente il nostro istinto animale, lontano dal continuum che ha modellato la nostra specie. La capacità di costruire strumenti ci ha svincolato dai sistemi di controllo dell’aggressività che tutte le specie hanno in dotazione: quando una leva o un pulsante può distruggere centinaia di persone senza nemmeno vederle in lontananza, i normali meccanismi inibitori, non verbali, dell’aggressività non possono entrare in azione. Il linguaggio, strumento logico, ci ha permesso di astrarre e di arrivare con il pensiero più lontano di quanto i nostri sensi ci conducevano (facendo esistere nella nostra mente concetti anche lontani dal mondo concreto e immediatamente percettibile), alimentando quella “fame di altro” che ci spinge inesorabilmente oltre i nostri limiti: una caratteristica straordinaria ma che può anche portarci più facilmente fuori strada, su chine pericolose.

Questo ampliamento della nostra sfera di influenza, nel mondo fisico e in quello mentale, ci ha portato molto lontano, ma spesso anche lontano dalla nostra più vera e sana essenza di uomini, rendendoci capaci di insensibilità, di scissione dei concetti dalle emozioni; rendendoci capaci di incidere sull’ambiente con effetti molto più grandi e molto più lontani nel tempo, di quanto la selezione naturale ci abbia messo in grado di gestire con i nostri strumenti di scimmie senza pelliccia.

In qualche modo, in qualche punto in questo percorso, abbiamo preso una direzione che ci ha alienato da parti importanti di noi stessi, creando realtà disfunzionali, una diffusa dis-umanità. Oggi viviamo in condizioni che sono talmente lontane dal continuum che abbiamo perso persino la capacità di esserne consapevoli: viviamo non più a stretto contatto con la terra, ma in grossi “termitai” di cemento; ci muoviamo a velocità pazzesche chiusi dentro le nostre scatolette di latta chiamate automobili, e guardiamo tutto il resto del mondo attraverso uno schermo. Siamo stati indotti a cibarci di cibi impropri e inadatti alla nostra biologia, come i grandi animali a sangue caldo, il latte di altre specie mammifere, i cibi cotti, i grassi, gli zuccheri e le farine raffinati e industriali. Ci si adatta a restare fermi al chiuso per molte ore al giorno, occupati in attività esclusivamente mentali, fin dalla prima infanzia (con la scuola prima, e poi il lavoro): gli uomini “primitivi” avevano e hanno molto più tempo libero di noi per dedicarsi ad attività di gioco e di interazione sociale, e comunque le loro attività “produttive” sono svolte in genere in gruppo e quindi sempre occasione di socializzazione.

L’enfasi data alle attività produttive e di lavoro solitario ha smantellato il gruppo tribale, il villaggio, più funzionale al nostro benessere e alle nostre attitudini, e portato a una solitudine innaturale: il distacco precocissimo dei bambini dalla madre e dalla famiglia (con i nidi e le scuole); la solitudine profonda della neo-mamma che deve accudire da sola i suoi piccoli in un appartamento separato da quello delle altre famiglie, per la maggior parte del giorno e della notte; la solitudine dei nostri anziani, spesso abbandonati e se stessi in un appartamento, oppure ammassati insieme negli ospizi. E questa anomala abitudine di raggruppare membri della specie per classi di età – i nidi, le materne, le classi di studio, gli ambienti lavorativi, gli ospizi – produce altre “disabilità” sociali: oggi molti bambini crescono senza avere l’occasione di apprendere a relazionarsi con gli adulti, senza avere contatti quotidiani con anziani o con bambini più grandi o più piccoli di loro. E poi c’è la cosa più innaturale di tutte: indurre i genitori a non prendersi amorevolmente cura dei loro bambini, frapponendo da subito separazioni fisiche e temporali che ostacolino l’intimità: il tutto esaltato come un precoce allenamento a regole che dovrebbero “temprare” l’essere umano per renderlo in grado di stare da solo, divenire “autonomo” dagli altri e dai suoi stessi bisogni. Ma noi umani non siamo degli eremiti, siamo una specie estremamente sociale che ha bisogno della compagnia, conforto e aiuto concreto dei propri simili, non solo per tutta l’infanzia, ma per tutta la vita!

Ritrovare il continuum perduto

La nostra specie ha raggiunto un momento critico della sua evoluzione. L’impatto delle sovrastrutture culturali e sociali sta incidendo profondamente sull’equilibrio interiore di ogni individuo, tanto quanto sull’equilibrio dell’ambiente intorno a noi. Stiamo sottoponendo i futuri esseri umani a un esperimento azzardato che mette alla prova i limiti di resistenza delle nostre risorse psicobiologiche.

Siamo una specie dalle enormi risorse, ma anche contraddizioni; ora abbiamo raggiunto un punto del nostro percorso in cui diviene inevitabile raccogliere la sfida a conciliare la nostra capacità di produrre cultura e pensiero con quella di riconnetterci alle nostre radici psicobiologiche. È ora di tornare sui nostri passi e assumerci la responsabilità di accogliere le nuove generazioni in modo consapevole, compassionevole e rispettoso delle radici umane che ci contraddistinguono.

Oggi la scienza ha sviluppato strumenti che rendono “visibili”, anche a coloro che cercano “prove”, l’impatto di certe prassi (come la separazione dei figli dalle loro madri) sulle nostre emozioni e sul nostro cervello; non si può più negare la realtà: la nostra è un’intelligenza edificata sull’emozionalità, e ci aspetta ora l’impegnativo compito di reintegrare queste parti perdute e disconnesse di noi, reimparando il rispetto, l’empatia e l’amore per noi stessi, per il nostro prossimo, per le specie non umane, per l’ambiente.

La nostra capacità unica di essere consapevoli, di poter vedere le cose nella prospettiva temporale e di poter guardare “oltre” noi stessi ci investe anche di una responsabilità molto più grande nei confronti delle altre specie viventi e dell’ambiente intorno a noi, chiedendoci di abbandonare la modalità predatoria per assumere quella del prendersi cura.

Un compito difficile ma non impossibile: ogni anno, ogni giorno nascono nuovi bambini che portano con sé ancora intatto tutto il bagaglio di competenze che permettono di restare connessi al continuum e di realizzare se stessi al meglio in quanto individui e in quanto esseri umani: rispettiamo questa loro competenza, non interferiamo, riconosciamoli come una risorsa evolutiva, permettiamo loro di guidarci e di aiutarci a ritrovare la strada.

 

Antonella Sagone – 30 luglio 2020

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