I bambini non sono fatti per stare fermi

I bambini non sono fatti per stare fermi

Chi può tener fermo un bambino che ha deciso di mettersi in azione? Spesso noi adulti siamo combattuti fra il desiderio di lasciare che i nostri cuccioli diano sfogo alla loro curiosità e voglia di sperimentare, e il timore che possano farsi male o causare danni… come trovare un punto di equilibrio?

Negli ultimi tempi, il bisogno di proteggere i bambini dalle minacce esterne è prevalso, e proprio a loro sono stati chiesti i maggiori sacrifici, in termini di limitazione del loro bisogno di muoversi, esplorare, entrare in contatto, toccare, sperimentare, fare vita sociale. Come se in fondo, una volta soddisfatti la fame, la sete, il confort, e assicurata la sicurezza fisica, tutte le altre necessità dei bambini fossero un “di più” di cui si potesse fare a meno anche per molto tempo. Ma è davvero così?

Il bisogno di muoversi

Quando si parla dei bisogni dei bambini, il pensiero va subito ai bisogni fisici fondamentali: nutrimento, calore, conforto, ma anche contatto e contenimento. Ma c’è un bisogno che viene poco considerato, e che invece è fondamentale come gli altri: il bisogno di attività, che si esprime fin dalle prime ore di vita. Se si osserva un neonato, egli è sempre in movimento, anche le sue mani e i suoi piedi si agitano, lo sguardo vaga e i suoi sensi assorbono tutto ciò che incontrano. Dapprima il bambino, non avendo capacità autonoma di muoversi, è dipendente dagli adulti; per questo è così importante portarlo “addosso”, non solo nei momenti tranquilli bensì soprattutto quando l’adulto è in attività, dentro o fuori casa, quando incontra altre persone e compie le sue azioni quotidiane. Questa fase in braccio per il bambino piccolo è essenziale, gli permette di sperimentare il movimento, i cambiamenti di orientamento del suo corpo, gli permette di imparare l’equilibrio addosso all’adulto, e prepara la strada a ciò che egli farà poi autonomamente quando conquisterà la padronanza dei suoi movimenti, potrà afferrare e potrà muoversi da solo.

Il bisogno di attività del bambino è irrinunciabile quando il mangiare o il dormire: nasce dalla spinta vitale, dalla necessità di convogliare le energie in azioni che gli permettano di esprimere al meglio il suo potenziale e trasformarlo in abilità. È bisogno di esplorare il mondo intorno a sé e quello interiore, di fare esperienza diretta delle cose, e non solo in modo mediato dai sensi della lontananza (vista, udito), ma di agire questa esperienza annusando, toccando e assaggiando e, più avanti, in quella finzione così autentica che è il gioco.

Quando il bambino è ai primi passi e il suo bisogno di attività è al massimo, si tende a reprimere questi slanci esplorativi, e a frustrarne l’iniziativa. La vivacità e la creatività vulcanica dei nostri bambini fatica a conciliarsi anche con l’organizzazione delle nostre scuole, in cui troppo spesso decine di bambini tutti della stessa età sono raggruppati insieme, con uno o al massimo due insegnanti, trascorrendo molte ore in attività statiche – le stesse per tutti – o ascoltando un’insegnante che fa lezione frontalmente. Ma cosa succede poi quando il bambino cresce? Dopo qualche anno così il bambino è più “tranquillo”, spesso già dirottato su attività fin troppo sedentarie; ed ecco che a quel punto viene spronato a impegnarsi in attività preconfezionate, organizzate e gestite dagli adulti: teatro, danza, sport, laboratori artistici, linguistici, motori… ci si sente insomma in dovere di “fargli fare” qualcosa. Ecco il paradosso: prima si ostacola, poi si sollecita il bambino all’azione; il fare sembra essere molto presente nei pensieri degli adulti, eppure in qualche modo si manca il bersaglio.

Sicurezza e libertà

Tutta questa preoccupazione su ciò che il bambino fa, o non fa, o dovrebbe oppure non dovrebbe fare, il timore di sbagliare dei genitori e la continua richiesta di consigli su “cosa fare” riguardo al comportamento del bambino, e su come “fargli fare” (oppure no) ciò che si presume dovrebbe, disconnette genitori e figli dallo slancio vitale che spinge ad esplorare le possibilità dell’azione al di fuori di schemi prestabiliti, per puro piacere ludico ed esplorativo. Ci si preoccupa di come intervenire, come genitori ed educatori, per stimolare il bambino; ma il modo migliore di affiancarlo sarebbe per prima cosa rispettare i suoi tempi e poi evitare di interferire, non ostacolare il bambino nel momento in cui il bisogno di attività emerge.

Affiancare un bambino ai primi passi, o poco più grande, è un compito impegnativo, non tanto perché si debba insegnare al bambino qualcosa, quanto per la necessità di favorire il suo slancio vitale ma nello stesso tempo proteggerlo dai rischi che ancora non sa valutare e dalle conseguenze a volte distruttive della sua prorompente vitalità e curiosità. Purtroppo i nostri spazi e la nostra società sono spesso organizzati in modo molto poco accogliente o sicuro per un bambino. Troppi ambienti, locali, istituzioni o luoghi di svago sono vietati ai bambini esplicitamente o di fatto; troppo spesso le azioni esplorative di un bambino o una bambina che ha bisogno di toccare, usare un oggetto, ripetere molte volte un gesto, vengono viste con ansia o con fastidio, senza nessuna comprensione per la sua necessità di conoscere e fare esperienza, con sfiducia nelle sue capacità di imparare a muoversi senza farsi male o danneggiare qualcosa. E troppe volte il vociare di un bambino viene vissuto come molesto, laddove rumori ben più sgradevoli, come il rombo del traffico o il fragore delle attività industriali, vengono tollerati per abitudine o rassegnazione.

Prendiamo il caso di una bambina che si sta esercitando a salire e scendere da una sedia. Sta procedendo piuttosto bene, ma a un certo punto viene sorpresa dalla zia che lancia un grido di allarme e la afferra appena in tempo mentre sta cadendo. Segue una sgridata con relativo pianto della bimba, un po’ di rabbia, un po’ di spavento riflesso.

Ma cosa è successo veramente?

Gli adulti sottovalutano molto l’abilità dei bambini a muoversi con competenza e a evitare gli incidenti. Ma c’è una certezza matematica: nel momento in cui il parente di turno mostra ansia e comincia a dire: “Piano… non correre… ti fai male… cadi…” è sicuro che prima o poi il bambino vacillerà e cadrà!

Probabilmente quella bambina sarebbe stata perfettamente in grado di salire e scendere dalla sedia senza farsi male, se non si fosse sentita limitata e stressata dall’ansia della zia. Stava facendo un lavoro molto importante, un apprendimento fondamentale, e non andava disturbata! Ma poniamo che la sedia fosse traballante, o fosse di quelle sedie pieghevoli che si chiudono se si sposta il peso sulla seduta vicino alla spalliera. Allora il compito dell’adulto sarebbe stato quello di proporre alla bambina una sedia più adatta per fare il suo esercizio; oppure di tenere ferma la sedia in modo che non traballasse mentre la bimba saliva e scendeva; o anche di spiegare (mostrando in pratica) cosa succedeva alla sedia se si metteva il piedino in un certo punto della seduta, e guidare la bambina a salire e scendere poggiando il piede dove non rischiava di richiudersi la sedia addosso.

In questo modo il bambino impara quali sono i limiti dei suoi comportamenti, dalla sua esperienza diretta, con la guida rispettosa dei genitori, e piano piano impara, senza bisogno di punizioni o sgridate. Cosa succede invece se l’approccio è punitivo? Il bambino, che sta semplicemente facendo con gioia ed entusiasmo il suo mestiere, cioè quello di fare ed esplorare tutto, viene mortificato e disorientato. Il suo senso di fiducia interiore viene minato proprio mentre sta sperimentando il piacere di muoversi nello spazio, di mettere alla prova la sua agilità, in un ambiente tutto da esplorare.

Torniamo alla bambina e alla sua sedia. Gli adulti, invece di affiancarla nella sua attività o almeno guardarla con approvazione, hanno mandato ripetuti segnali sul fatto che quello che sta facendo è sbagliato. Perché? Una bambina ai primi passi non può capirlo. Perché queste cose meravigliose danno così fastidio ai grandi? Si sente sbagliata. Vede anche che sono allarmati e temono si faccia male; comincia a diventare anche lei ansiosa e insicura, finché commette un errore e si fa male davvero. Piange, e viene sgridata ulteriormente! Tutti la guardano con disapprovazione.

Cosa impara da questa esperienza una bambina così piccola?

  • che i suoi impulsi a muoversi ed esplorare sono sbagliati e riprovevoli;
  • che lei è goffa e incapace di superare gli ostacoli;
  • che darsi da fare è pericoloso, e star fermi e non fare è più sicuro e piace di più ai grandi;
  • che le brave bambine non corrono, non saltano, non toccano, non sporcano;
  • che per essere amate e approvate occorre reprimere i propri istinti e restare passive.

Sicuro che è questo che si vuole insegnare?

Proteggere senza soffocare

I genitori hanno bisogno di recuperare l’arte del misurare le parole, evitando i messaggi allarmistici e cercando di offrire informazioni piuttosto che raccomandazioni. Non si sta dicendo che si devono lasciare i bambini allo sbaraglio, senza sorveglianza o senza limitare le situazioni rischiose. Ma col tempo ci si rende conto che la metà dei consigli e degli avvertimenti che noi adulti diciamo sono frasi vuote, ereditate dai nostri genitori, che comunicano sfiducia e non danno alcuna informazione utile. “Attenta al gradino” – ma che vuol dire “attenta” per una bambina ai primi passi? Semmai dire: “Questi gradini sono molto alti”, oppure: “Se sali i gradini con quello scatolone in mano non puoi vederti i piedi” o ancora “Una volta sono inciampata su quei gradini perché guardavo dietro di me invece che avanti”. Ma si può anche non dire nulla! Se il bambino non sta facendo cose avventate, lasciamogli salire le scale in pace, senza che qualcuno insinui che non ne è in grado o faccia l’uccello del malaugurio.

Quando ero bambina, quanta libertà! I genitori ci sorvegliavano da lontano e lasciavano che misurassimo le nostre capacità anche a prezzo di qualche ruzzolone.  E quando sono diventata madre (anni ‘80 e ‘90) la cultura del rischio non era così marcata e io ero abbastanza serena. Certo, ogni tanto, nel vedere i miei figli camminare traballando, le ansie da neogenitore mi sorgevano naturali; però non dominavano i miei pensieri. Ero fiduciosa nell’istinto di autoconservazione dei miei figli perché li avevo visti in azione, li avevo visti farsi male e guarire, e sostanzialmente crescere sani prima con il mio latte e poi “ruspanti”, con il nostro cibo e razzolando in giardino e in strada, su e giù dai muretti e dai cancelli, insomma più liberi che mai.

Quanti al giorno d’oggi hanno la fortuna di vedere i propri figli mettere alla prova il loro potenziale di salute, ed esprimere liberamente la loro fisicità?

Genitori sicuri

Dove trovare quel sottile equilibrio fra l’incoscienza e il desiderio di proteggere?

Cosa rende un genitore sicuro di sé?

Per sentirsi sicuri sono necessarie informazioni, sostegno e incoraggiamento. Quando questi tre presupposti vengono meno, a causa dell’isolamento, e i genitori sono sommersi da critiche, informazioni e indicazioni confuse e contraddittorie, il senso di sicurezza scompare e sopraggiunge ansia e incertezza. Il senso di giustezza interna, quel nucleo di sé che permette di essere connessi ai propri bisogni ed emozioni e di guidare le scelte e le azioni, è smarrito e al suo posto c’è la ricerca spasmodica di un consiglio autorevole, di una ricetta, di un metodo, di regole fisse e universali da poter seguire in ogni circostanza. Sui social, nei gruppi di genitori appaiono costantemente post il cui nucleo centrale è: “che devo fare?”.

Nessun genitore è invincibile e impeccabile, e prevenire ogni evento negativo è impossibile. La condizione esistenziale umana è quella di pagare il prezzo di una consapevolezza del passato e del futuro con la coscienza che la propria capacità di proteggere se stessi e i propri piccoli è relativa e soggetta ai propri limiti e ai capricci del fato. Ciascun individuo reagisce a questo pensiero in modi differenti, che hanno radici nella sua visione dell’universo, ma anche nel bagaglio di esperienze, nel contesto intorno e nella base di esperienza emotiva ricevuta quando a sua volta è stato bambino.

Un’infanzia vissuta nella rassicurante ma discreta presenza amorevole dei propri genitori, nella certezza di essere protetti, accuditi e salvati se necessario, è una solida base per i genitori, offrendo un modello positivo e la certezza che prendersi cura dei propri bambini è possibile.

I genitori, praticando giorno dopo giorno le cure prossimali (cioè allattando oltre i primi mesi, facendo cosleeping, rispondendo prontamente  ai bisogni del bambino, non lasciandolo piangere, portandolo in braccio) acquisiscono competenza e sicurezza, cioè sono rilassati nel lasciare il bambino esplorare l’ambiente e le sue potenzialità, perché l’esperienza e la conoscenza sempre più profonda del loro bambino li rende capaci di comprendere meglio fin dove egli si può spingere senza rischio. Proprio perché l’attaccamento sicuro dà sicurezza in entrambe le direzioni, si fonda su una buona competenza a riconoscere le abilità, gli stati d’animo e i bisogni reciproci.

L’accumularsi delle esperienze, l’accresciuta competenza nell’interpretare i segnali del bambino, i successi nel far fronte alle varie situazioni poste da un figlio che cresce contribuiscono, sia nei figli che nei genitori, a costruire l’autostima, il senso di autoefficacia e di competenza che è necessario ai piccoli per trovare lo slancio e il coraggio di avventurarsi, e agli adulti per affiancare giorno dopo giorno i propri figli con sufficiente fiducia in loro, in se stessi e nel mondo che li circonda.

Antonella Sagone, 5 dicembre 2020

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