A che serve la scienza?
Nel precedente articolo si è cercato di spiegare che cosa significa “evidenza scientifica”, e su cosa si basa il metodo scientifico di indagine della realtà. Si è spiegato come per essere molto attendibile, il risultato di una ricerca deve avere alcuni requisiti: essere basata su un ampio numero di soggetti selezionati in modo casuale, avere un gruppo di controllo (da confrontare con il gruppo su cui si studia una certa caratteristica), essere condotta in modo che i preconcetti personali non influenzino la raccolta e la valutazione dei dati, e non ultimo, non essere viziata da conflitti di interesse (per esempio, finanziamenti da parte di soggetti che hanno interesse ad ottenere determinati risultati).
Si è anche detto che la più rigorosa raccolta di dati è inutile, se poi a livello di interpretazione dei risultati le conclusioni sono viziate dalle proprie convinzioni personali; in altre parole, uno studio scientifico non è qualcosa di astratto ma deve avere un senso, un significato, e soprattutto essere permeato dalla consapevolezza che la scienza si fonda sul dubbio, sull’umiltà di sapere di poter sbagliare: non è la fonte di sempre maggiori certezze e risposte, ma al contrario il generatore di sempre più domande, ed è bene che sia così.
Il precedente articolo affermava anche che la scienza deve essere una nostra alleata e non una tiranna. Ovvero, deve fornirci delle indicazioni sulla realtà, permettendoci di orientarci meglio mentre ci muoviamo nella complessità del reale; ma non deve farci dimenticare o ignorare questa complessità, che contiene molto di più che non ciò che può essere classificato e misurato.
Recentemente un amico ha condiviso con me una riflessione su quello che accade quando un mezzo diventa fine. Nella nostra vita umana, abbiamo creato molti mezzi straordinari, che ci hanno aiutato a gestire le complessità, ma nel momento in cui questi mezzi, questi strumenti, si sono trasformati in fini, in obiettivi con un valore “in sé”, ci hanno allontanato da ciò che è vitale e hanno causato vere catastrofi esistenziali nella nostra società. Un esempio eclatante è quello del denaro. Un altro esempio è quello della tecnologia. La scienza può essere un terzo caso di mezzo che, nel momento in cui diviene essa stessa scopo e valore intrinseco, e non più mezzo per conoscere, ci allontana dalla vita e dall’amore.
Punti di forza e punti di debolezza del metodo scientifico
La forza del metodo scientifico risiede in una serie di presupposti rigorosi che permettono di procedere alla verifica di un’ipotesi o di una teoria, con metodi che potremmo definire “obiettivi”, nel senso di non influenzati dalle nostre opinioni, dalle nostre aspettative o credenze. Molti miti sono stati sfatati una volta messi alla prova con esperimenti rigorosi, e questo ci ha permesso di migliorare i nostri approcci pratici in molti ambiti, dalla medicina all’astronomia, dalla fisica alla biologia.
Il vero scienziato è umile, perché nella sua vita ha visto molte teorie nascere e morire sgretolandosi alla prova dei fatti: ed è paziente, perché i migliori risultati si hanno con la meticolosità, l’ingegnosità nel disegnare gli esperimenti, e la ripetizione, procedendo non per intuizioni folgoranti ma per prove ed errori. Il vero scienziato non utilizza mai il dato scientifico come dogma, come verità assoluta; esercita il dubbio come principio primo e primo motore della ricerca, e sa che le verità di oggi sono solo modelli più o meno adeguati a descrivere la realtà sulla base di ciò che è noto in questo momento.
Il metodo scientifico consente un’affidabilità intrinseca perché seleziona in modo rigoroso gli oggetti dell’indagine, standardizza i metodi di esplorazione della realtà (cioè rende possibile la ripetibilità dei suoi esperimenti), crea tecniche che permettono di misurare i fenomeni e di quantificarne i parametri, e impedisce che l’interpretazione dei dati sia influenzata da fattori soggettivi (ad esempio le proprie opinioni) operando il massimo distacco possibile dall’oggetto osservato.
Questi sono i punti di forza del metodo scientifico.
E i punti deboli?
Sono esattamente gli stessi.
Perché la ricerca scientifica non può che muoversi in un universo teorico, che è molto differente dalla realtà multiforme e in continuo mutamento in cui viviamo le nostre vite normali.
L’affidabilità intrinseca della scienza è coerente solo finché resta all’interno del recinto dell’osservazione sperimentale, ma difficilmente è applicabile alla caotica realtà quotidiana. L’uso di misurazioni specifiche impedisce di includere nei propri studi tutto ciò che per sua natura, o per inadeguatezza dei nostri strumenti, non può essere misurato e quantificato. La ripetibilità di un’osservazione è ardua da applicare, ad esempio, ai singoli esseri umani, che sono differenti gli uni dagli altri e che vivono vite differenti fra loro. Il distacco dalla realtà osservata ci permette di descrivere un mondo in cui però un’ampia fetta di esperienza non trova posto, perché non è oggettivabile. Come afferma lo psichiatra Ronald Laing (Nascita dell’esperienza, 1982),
“Il mondo scientifico oggettivo non è il mondo della vita reale. È un manufatto altamente sofisticato, creato da operazioni multiple che con efficacia ed efficienza escludono dal suo ordine di discorso l’esperienza immediata in tutta la sua evidente bizzarria”.
Ora, quando si tratta di testare la resistenza di un materiale, o l’efficacia di un collante, o la durata nel tempo di un prodotto, il metodo scientifico va alla grande. Ma via via che aumenta la complessità del sistema osservato, diviene sempre più difficile osservare, descrivere e misurare i processi che in esso hanno luogo. Ecco perché alla mamma che è stata criticata (come raccontavo nell’articolo precedente), e che chiedeva le “prove scientifiche” della non nocività dell’allattamento di un bambino grande, è difficile dare una risposta soddisfacente.
Certo, non è escluso che un approccio scientifico possa dare il suo contributo anche in questo caso: la sempre maggiore raffinatezza degli strumenti di indagine, come ad esempio le conoscenze di psico-neuro-endocrino-immunologia, le neuroscienze, gli studi longitudinali e quelli su numeri molto vasti di soggetti possono comunque darci delle risposte con un alto grado di probabilità di essere vere. Insomma la scienza può avere qualcosa da dire anche in ambiti di grande complessità; soltanto è molto più complicato. E soprattutto, occorre chiedersi preventivamente se è davvero necessario dimostrare in modo inoppugnabile l’ovvio, e chiedersi ad esempio perché, dato che siamo mammiferi, e che in base a millenarie osservazioni, in assenza di interferenze i bambini vanno al seno spontaneamente e felicemente per molti mesi e anni e altrettanto spontaneamente a un certo punto se ne distaccano, perché si senta così fortemente il bisogno di dimostrare in modo oggettivo che tale pratica sia salutare e non invece in qualche modo dannosa.
In scienza e coscienza
Non c’è nulla di male a utilizzare lo strumento esplorativo del metodo scientifico. Solo, occorre mantenere sempre una lucida consapevolezza non solo di cosa si sta facendo, ma anche del perché lo si sta facendo. Una scienza senza etica non è utile, non è morale e ben presto smette anche di essere scientifica, perché tende a identificare la realtà con quell’universo riduttivo e semplificato che può esplorare coi suoi strumenti scientifici, e a ritenere che tutto ciò che non può rilevare, definire, misurare e valutare, semplicemente non esista. Amore e odio, arte, fede religiosa, senso morale, speranza, esperienza estetica, dubbio, tenerezza, intuizione, saggezza, pazzia, bellezza, amicizia, compassione, sogno, turbamento, esperienze mistiche, piacere, tristezza, noia, felicità, tutte queste cose divengono entità imbarazzanti nella loro inafferrabilità, e quindi accantonate. Lo sguardo scientifico diventa così alla fine inconsapevole di quasi tutto ciò che vale la pena di essere vissuto, e soprattutto perde di vista i motivi per cui ha intrapreso il suo viaggio all’esplorazione del reale.
Lo scienziato che ha smarrito il senso della scienza come strumento diviene preda dell’Hybris, dell’arrogante presunzione di poter sapere e dominare ogni cosa, e perde l’umiltà socratica del dubbio, del sapere di non sapere che è alla base di ogni bene, e che ci permette di mantenere la connessione con le nostre parti vitali e autentiche.
È a questo punto che la scienza diventa un’espressione del potere, si fa spietata e inutilmente crudele, e da mezzo si trasforma in fine, si autolegittima e si autogiustifica. Da questa degenerazione nascono esperimenti senza cuore e senza scopo, che generano sofferenza e morte negli animali da laboratorio ma anche negli umani che ne sopportano le conseguenze e le conclusioni aberranti. Per approfondire l’aberrazione degli studi basati sulla sperimentazione animale, leggete questo articolo.
Questa scienza fuorviata diviene scientismo, dogma da difendere da ogni critica, e quindi, oltre alla sua estrinseca ragion d’essere, perde definitivamente anche quella obiettività e quel rigore che le dava un significato intrinseco.
Per uscire dal vicolo cieco distruttivo e disumanizzante in cui ci ha condotto un approccio predatorio delle società umane, occorre invertire la divaricazione fra scienza e umanismo e riconnetterle in modo fertile e vitale. Lo scienziato e il poeta devono coesistere e sostenersi reciprocamente. Lo sguardo obiettivo deve accettare il paradosso di non poter fare a meno della soggettività insita nello stesso atto di osservare e trarre conclusioni, e capire che riconnettersi al cuore, considerare assieme al cosa e al come anche il perché (dietro quale impulso e per quale scopo), ricordarsi che oltre al campo della lente della scienza esiste tutto un mondo, riconnettersi insomma alla vita non farà perdere scientificità alle sue indagini ma le arricchirà invece di una maggiore profondità e significato. Muoversi fra i vari piani – quello oggettivo e quello soggettivo, quello scientifico e quello umanista – è la sfida, non più eludibile, del nostro presente e la base necessaria per qualsiasi nostro futuro.