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Quel figlio piumato caduto dal cielo

Certe volte i maestri di vita piovono da dove meno te lo aspetti. Il nostro cadde dal cielo di Roma un giorno di luglio…

Eravamo una coppia in erba, non ancora una famiglia e forse nemmeno una coppia troppo impegnata, anche se convivevamo da un paio di anni. Vivevamo in subaffitto in un minuscolo appartamento al centro di Roma, in un fatiscente palazzo seicentesco, vicino a Piazza di Spagna, la qual cosa non ci riempiva poi così di gioia come si può pensare: traffico, smog, rumore giorno e notte, e nemmeno un albero, nemmeno un pezzettino di orizzonte dal quale veder tramontare il sole. Due cuori e una capanna, o meglio un miniappartamento di due stanze, tinello, corridoio, bagno e cucina in 20 metri quadri, così affastellati che avevamo dovuto smontare le porte e metterle sopra l’armadio per poterci muovere per casa. L’appartamento ce lo aveva “passato”, per non perderlo, il titolare dell’affitto, un ragazzo di Catania che era scappato con un francese l’anno precedente.

Piovuto dal cielo

È in questo ambiente così cartolinesco e snaturato che un giorno è piombato nella nostra vita Darwin. No, non il famoso padre dell’evoluzionismo, ma un rondone spennacchiato e affamatissimo, 10 centimetri di piumette nere, penne ancora tutte imbustate nei calami e un becco che chiuso sembrava minuscolo ma aperto era una fornace.

Si era annunciato un pomeriggio di inizio luglio con un tonfo sordo sull’enorme portone chiuso di un palazzone in piazza del parlamento: ed eccolo lì in terra che arrancava, intontito ma miracolosamente tutto intero, tentando ostinatamente di strisciare il più lontano possibile. Claudio e io lo raccogliemmo e lui, lungi dal tremare o stressarsi come un nidiaceo qualsiasi, ci guardò fieramente negli occhi e si accomodò tranquillamente nelle nostre mani, come a dire: questo nido con riscaldamento autonomo non è niente male.

In breve il rondone, subito ribattezzato Darwin con la speranza di dargli un po’ di mistica protezione, si installa nel nostro buco di casa, in uno scatolone, avendo disdegnato ogni sorta di nido che avevamo cercato di costruire, sicuramente nel modo sbagliato. O forse buttarsi giù dai nidi era appunto la sua vocazione. Dopo una breve inchiesta, ci dotiamo di carne trita (lo so, ma è quello che può tenere in vita un piccolo insettivoro, se non si sa attrezzarsi per procurargli qualche centinaio di insetti vivi al giorno), e in un batter d’occhio Darwin capisce così bene come funziona che appena vede il nostro dito avvicinarsi al suo becco la sua testa apparentemente si “apre” in due, trasformandosi in un rombo-imbuto giallo e arancio palpitante e smanioso di cibo.

E qui comincia l’imprevista lezione di vita del nostro amico pennuto. Le nostre esistenze, fino ad allora prive di un senso o di una direzione, improvvisamente ruotano giorno e notte intorno al quel minuscolo pugno di ossa e piume. Il piccolo ha fame. Sempre. Mangia puntuale come un orologio ogni due ore. E ovviamente fa anche le sue cose, in retromarcia nella sua scatola. E se non corri subito con la pallina di carne ai primi stridii, comincia a beccare furiosamente il cartone con colpi secchi. Chi ha detto che gli uccelli vengono imbeccati l’ultima volta al tramonto e poi dormono fino all’alba? il nostro chiamava puntualmente anche di notte, sempre ogni due ore; e quelle beccate sul cartone alle quattro del mattino rimbombavano nella nostra testa come martellate. E così, da bravi genitori in erba ci davamo i turni e ci alzavamo assonnati ad imboccarlo, pardon, ad imbeccarlo.

L’idillio

Chi ce l’avesse detto che poco più di un anno dopo avremmo fatto la stessa cosa per il nostro primo figlio, che allora non era nemmeno nei nostri sogni più remoti… e che avrei ringraziato nel mio cuore quel piccolo viandante smarrito che con i suoi occhi di ossidiana lucente e il suo carattere pugnace era venuto a farci fare le prove generali con un anno di anticipo! E da bravi genitori, e grazie al fatto che nostro figlio aveva penne e becco, abbiamo potuto senza tante interferenze allenarci per due mesi a scoprire cosa significa mettersi in sintonia con i bisogni di un piccolo essere che non parla e la cui vita dipende esclusivamente da noi. E senza l’assillo di amici e parenti a dirci “non lo viziate”, “dovete dargli un orario”, “gli avete già comprato la cameretta?” e cose del genere; senza industrie di alimenti artificiali ad inseguirci con ricche offerte per l’ultimo mangime… Senza orari, bilance o pannolini, abbiamo tirato su il nostro figliolo pennuto come fanno in fondo tutti i genitori: improvvisando e seguendo la nostra sensibilità e intuizione.

La cosa ha funzionato benissimo. Dopo un mesetto, fra noi e Darwin c’era un’intesa perfetta. Buttato via lo scatolone, si era insediato su una sedia per la notte, ma il giorno mi svolacchiava per casa (sempre raso terra) o stava appeso ai miei vestiti poggiati sulla spalliera di una sedia, o direttamente addosso a me. I rondoni sono delle macchine per volare: sostanzialmente le loro zampe sono così brevi e raccolte che non possono nemmeno camminare, ma solo arrancare pancia a terra. La loro posizione di riposo naturale è in verticale, con i lunghi artigli aggrappati saldamente a una parete. Ricordo ancora i pacifici pomeriggi in cui io sedevo sul letto a preparare la tesi, gambe flesse e libro sul ginocchio destro, mentre sul sinistro Darwin si lisciava con determinazione le penne che, sempre più nere e lunghe, cominciavano a venire fuori dai calami, oppure si stiracchiava le ali per lunghissimi e voluttuosi quarti d’ora.

Oppure uscivo per fare la spesa, e lui semplicemente lo “indossavo” aggrappato al mio petto, come una grossa spilla nera fuori misura. Non avevo bisogno di tenerlo, stava tranquillamente attaccato a farsi trasportare da quel nido semovente che per lui ero diventata. Ricordo ancora l’urlo di una cassiera quando Darwin decise di sgranchirsi le ali platealmente proprio mentre tiravo fuori gli spicci per pagare il pane.

Ero una giovane mamma e non lo sapevo. Oltre ad avermi fatto sperimentare l’alimentazione a richiesta e il portare, mi ha anche insegnato la faccenda dell’Elimination Communication, l’educazione ad un’igiene naturale senza pannolini. In qualche modo, portandolo addosso, presentivo benissimo quando doveva farla, e semplicemente mi fermavo un attimo, lo prendevo e lo mettevo a terra: e lui, con precisione, tre passi in retromarcia e mollava il suo regalo. Non so dire cosa mi facesse capire il momento giusto, però non mi sono mai sporcata. E non si trattava di averlo “ammaestrato” a farla, semplicemente eravamo in sintonia e come io avevo imparato ad assecondarlo quando doveva evacuare, così lui aveva imparato ad aspettare che lo mettessi a terra. Solo una ventina di anni più tardi avrei sentito parlare per la prima volta del metodo per crescere un bambino senza pannolino, troppo tardi purtroppo per usarlo con i miei figli (eppure lui, Darwin, ci aveva provato ad insegnarmelo…). Pensate che sia impossibile capire quando vostro figlio sta per farla? ebbene, se si può fare con un rondone… figuriamoci con un neonato!

La metamorfosi

L’idillio si ruppe bruscamente e senza preavviso da un giorno all’altro verso i primi di agosto. Il giorno prima era un affettuoso e pacifico uccellino che sembrava non avere altro interesse che farsi accarezzare sotto la gola, accorrere a mangiare dalle mie mani quando imitavo (ormai perfettamente) il grido di mamma rondone e dormire o lisciarsi le penne addosso a me nei pomeriggi afosi di mezza estate; il giorno dopo era una bestia selvatica prigioniera, che rifiutava di nutrirsi, si dibatteva se cercavo di afferrarla ed era pronta a schiantarsi contro un vetro pur di darsi alla fuga da quelle quattro mura che improvvisamente erano diventate per lui una trappola.

Semplicemente, era il momento di spiccare il volo. E così, con Darwin in una scatola da scarpe che impazziva per uscire, ci siamo precipitati nella più vicina area aperta ed elevata, e lì lo abbiamo preso e gli ho carezzato un’ultima volta la testolina nera, lucida e liscia come la seta. Poi a palmo aperto l’ho sollevato in alto e lui, che non aveva mai volato se non sbatacchiando raso terra per pochi metri, ha spiccato il volo ed ha puntato dritto e in linea retta verso l’alto, senza mai guardarsi indietro, accodandosi agli ultimi rondoni ritardatari in rotta per il Madagascar. Siamo rimasti lì a guardare in su, certi che ce l’avrebbe fatta, che il suo istinto era forte, e che non avrebbe confuso la sua vita con la nostra.

Lasciar Andare

Sarebbe bello poter un giorno dire la stessa cosa dei propri figli, che possano spiccare il volo dal palmo teso e andare per la loro rotta, senza confondersi. Che noi genitori riuscissimo tutti a far bene il nostro lavoro, cioè quello di esserci ma non di modellarli, imporgli un ritmo, un modo, un’identità che non è loro ma di noi adulti o peggio del pazzo mondo in cui li stiamo crescendo. Se un giorno per noi è stato così, e se con i nostri figli siamo riusciti a credere nella competenza di quel neonato, di quella neonata, che giorno e notte, ogni poche ore, si svegliavano per poppare, dormivano addosso a noi come patelle sullo scoglio e che mostravano tutto il loro  benessere solo quando potevano essere se stessi insieme a noi, se abbiamo saputo fidarci di loro e di noi stessi, un po’ di merito lo dobbiamo anche a Darwin, il nostro primo figlio pennuto che è piovuto su di noi per un breve e acceleratissimo corso sull’arte avventurosa di essere genitori.

Antonella Sagone, 2 marzo 2023

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