L’industria della salute

L'industria della salute: da processo a prodotto

Che prezzo hanno i corpi? E che prezzo hanno le anime?

Queste domande si potrebbero ritenere indecenti se la mercificazione della nostra salute fisica e mentale non fosse da tempo parte di un percorso che vuole privare gli esseri umani anche del diritto fondamentale a decidere del proprio corpo vivente e della propria anima pulsante.

Tale percorso è iniziato quando le istituzioni sanitarie sono diventate, da unità e luoghi di cura, Aziende e come tali soggette a logiche di profitto o quantomeno di sicurezza economica. La necessità di benessere delle persone, la medicina preventiva e terapeutica, il bisogno di accudimento della cittadinanza (il prendersi cura della salute e non solo della malattia, della persona intera e non solo del sintomo) sono divenuti semplici variabili da incastonare in un bilancio monetizzato, in cui gli investimenti devono avere un ritorno economico. I sanitari sono gli operatori esecutivi di questa azienda della salute (protetti con strumenti difensivi come le informative e i consensi da firmare) e i “pazienti” sono un prodotto greggio che, una volta entrato nell’ingranaggio di cura dell’istituzione, viene “lavorato” per trasformarsi in prodotto finito, e cioè in un insieme di soggetti-oggetti con esiti definibili in base a un bilancio di guariti, deceduti o cronicizzati, da monetizzare in termini di costi sanitari e di consumo di farmaci e procedimenti diagnostici.

Quando la salute diviene un affare

Come in ogni azienda che si rispetti, i rami produttivi (cioè quelli che generano maggior profitto o comunque si rivelano vitali per la salute economica dell’impresa) vanno incrementati e protetti, mentre quelli improduttivi, i rami secchi, vanno disincentivati o tagliati: il che in sostanza significa che le patologie più diffuse trovano spazio e investimenti, mentre quelle rare non trovano fondi per la ricerca di terapie e per la produzione dei farmaci, non a caso definiti “orfani”; e che i reparti ospedalieri più massificati (i grandi complessi ospedalieri, i reparti di maternità che sfornano migliaia di parti l’anno) sono foraggiati mentre i piccoli ospedali o servizi locali vanno chiusi anche se offrono servizi di eccellenza, perché producono numeri bassi di prodotto finito, e non importa quanto tale prodotto finito siano persone che, magari, in quei reparti trovavano la salute e ricevevano un’assistenza ottimale e soprattutto umana.

In uno Stato di diritto, che si prende cura dei suoi cittadini, la salute è un bene pubblico e come tale occorre investire quanto serve per proteggerla o ripristinarla al meglio possibile, non importa quali ne siano i costi: perché è la salute stessa il ritorno benefico di questo investimento.

Ma quando la gestione della salute pubblica diviene di stampo aziendale, lo Stato non è che uno degli investitori. In quest’ottica, si aprono le porte anche agli investitori privati, portatori di interessi completamente svincolati da quelli dei cittadini. È a loro che l’azienda sanitaria deve rendere conto, e non certo ai suoi utenti, che sono solo un elemento da processare in un percorso produttivo, la grande macchina economica mantenuta in vita dalla produzione dei farmaci, degli accertamenti diagnostici, della ricerca, della formazione continua e obbligatoria dei sanitari. Un business che si autoalimenta e che oltre a produrre profitto in continua crescita, produce anche le motivazioni per la sua stessa esistenza, sotto forma di definizione (tutt’altro che disinteressata) di “bisogni formativi”, “programmi di prevenzione del rischio” e domanda terapeutica per malattie sempre nuove e sempre più sfuggenti in quanto anche semplicemente “potenziali”.

Dall’arte alla tecnica

Nella sua visione originaria, curare era un’arte. I processi di salute e di malattia erano considerati qualcosa di speciale, parte integrante della storia di un individuo, e nella relazione con il singolo paziente il medico trovava l’ispirazione per un percorso di guarigione, integrandolo nelle sue conoscenze, certamente, ma senza che questo lo vincolasse a seguire un procedimento obbligato e uguale per tutti. Ogni relazione terapeutica era unica, e si risolveva in modo irripetibile e con un contributo creativo da parte sia del medico che del paziente; così come un pittore non potrebbe dipingere sempre lo stesso quadro, allo stesso modo un medico non potrebbe praticare l’arte del prendersi cura ripetendo sempre la stessa sequenza di atti, algoritmi o protocolli.

Rendere la medicina un’attività imprenditoriale ha trasformato il processo di salute in un prodotto, gli utenti in consumatori, le aziende sanitarie in supermercati e i medici in piazzisti di farmaci e di procedure diagnostiche e terapeutiche. In quanto consumatori, gli utenti hanno assunto un ruolo passivo di fruitori del prodotto “medicina”, sviluppando aspettative non realistiche nei confronti dell’operatore sanitario, visto come colui che “ripara ciò che è rotto” fornendo garanzie di successo e forse un giorno, chissà, con il progresso della scienza, di una futura immortalità.

Si è sviluppata l’esigenza di uno standard delle cure, che ne garantisse l’uniformità, la ripetibilità, i limiti di garanzia, le forme risarcitorie in caso di prodotto “non conforme” alla descrizione data.

Le linee guida e le raccomandazioni, un tempo fari o boe che aiutavano il sanitario nella navigazione, hanno smesso di essere una luce per orientarsi nel buio o un segno che potesse essere circumnavigato, e si sono trasformate in binari e recinti fatti di protocolli ai quali non si può derogare se non al prezzo di uscire dallo spazio confortevole del “commercio sicuro” della salute. L’operare “in scienza e coscienza” è stato sostituito da un operare secondo “buone pratiche”, definite in base a quegli standard che, sempre nella logica produttiva, davano il massimo di risultati positivi con il minimo di costi e rischi legali per l’Azienda Sanità. La scienza come strumento affilato grazie a un esercizio oculato del dubbio non ha posto in questo nuovo universo, che ha bisogno invece di rotte collaudate e di porti sicuri, e si è dunque trasformata, da umile e potente strumento di indagine, in arrogante e fragile fonte di certezze.

L’origine della medicina difensiva

Un paradigma che offra definizioni chiare ed univoche su ciò che è vero e ciò che è falso, che distingua il giusto dall’errato e il beneficio dal danno, nel mondo della salute obbligatoria è fondamentale perché costituisce il “certificato di garanzia” del prodotto sanitario, che rassicura il cliente ma in realtà permette di sollevare il distributore e il produttore da ogni responsabilità qualora qualcosa non funzioni, con la motivazione che l’utente non ha “seguito le istruzioni” della casa produttrice. Le buone pratiche vengono presentate come l’evidenza statistica del percorso terapeutico che garantisce i migliori risultati al minor costo e rischio, e ciò non tiene conto dell’unicità di ogni corpo e ogni anima e di ogni relazione terapeutica, che richiede invece autodeterminazione, connessione con il proprio senso di giustezza interiore, assunzione personale di responsabilità riguardo alla salute, sia da parte del professionista che da parte del paziente.

Il risultato è una medicina difensiva che, di fronte alla sofferenza, al disagio e alla malattia, opera scelte dettate dalla necessità di non soccombere a un eventuale procedimento penale, e non dal desiderio di comprendere e prendersi cura della persona che si affida al professionista.

L’arte medica diviene tecnica terapeutica, e l’agente di questa pratica un semplice esecutore, un detentore di inutili competenze forzato ad operare su un percorso predefinito che gli offre, a fronte della rinuncia alla bellezza creativa della sua professione, la certezza che nessuna conseguenza avversa, nemmeno in caso di errore, gli potrà essere imputata, se seguirà pedissequamente le “istruzioni” descritte nelle linee guida.

Se invece egli si ostinerà a voler operare “in scienza e coscienza”, seguendo percorsi tagliati su misura per il paziente, anche discostandosi dai protocolli, le conseguenze potrebbero essere peggiori di un semplice aumento del rischio personale in caso di eventi avversi. La società del mercato della salute non tollera eretici e ne prevede l’isolamento prima, e la neutralizzazione professionale poi, attraverso sanzioni disciplinari fino alla radiazione: così prevedono i nuovi codici deontologici in via di implementazione in tutte le professioni sanitarie, che renderanno “obbligatorio” (una contraddizione in termini) seguire le linee guida e allinearsi alla versione dominante di Verità, Giustizia e Bontà come sancito dalla comunità scientifico-professionale del momento, vale a dire dalle politiche sanitario-aziendali nazionali e internazionali.

La psicologia nella trappola

Questo paradigma, originato in seno alla medicina che si prende cura dei corpi, è stato esteso anche alle pratiche che si prendono cura della Psiche, della nostra vita interiore e delle relazioni umane. Proprio così, giacché questo sistema basato sulle logiche di mercato ha voluto appropriarsi anche del territorio della Psicologia. Un legge del 2018 ha trasformato gli psicologi in operatori sanitari, li ha inseriti in questa logica che assimila la relazione terapeutica, o anche la semplice relazione con il cliente, a un contratto che offre un “prodotto”, un procedimento logico, una previsione di risultati, un profilo di rischio, delle garanzie e dei meccanismi di distribuzione delle responsabilità simili a quelle per la vendita di un farmaco; cosa insensata da applicare a un processo delicato, complesso, sfuggente e in continuo divenire come è una relazione terapeutica o di sostegno psicologico. Una relazione terapeutica è come l’esplorazione di una terra vergine, dove non ci sono mappe o destinazioni prefissate, ma si naviga a vista, si avanza senza sapere quale sarà la destinazione, quanto ci vorrà per arrivarci, che strada sceglieremo di percorrere.

La Psicologia è basata su un tipo completamente diverso di scienza, è una scienza umana fondata sul pensiero analogico, che ha bisogno di ben altri spazi di libertà al suo interno, in cui il percorso migliore verso la salute non è quasi mai il più veloce e breve, ma ha bisogno di tortuosità, andirivieni di senso e di emozioni, sentieri curvi e ritorni sui propri passi, perché è proprio il camminare che costituisce la “cura” necessaria.

Raggiungere la massa critica

L’industria sanitaria, alla ricerca di sempre nuovi mercati, mentre lascia orfane patologie rare e condizioni di sofferenza diffuse ma imbarazzanti nelle loro cause (ad esempio le nuove patologie autoimmuni, le fibromialgie, le sindromi da stanchezza cronica, le sensibilità chimiche multiple), mette in atto l’espansione più massiva della storia medica scegliendo la strada della prevenzione di massa. Una prevenzione che non è basata sull’acquisizione di pratiche di vita salutari o sul miglioramento ambientale e la limitazione dei fattori inquinanti chimici o elettromagnetici, ma che si fonda sul commercializzare prodotti che dovrebbero “prevenire il rischio” di ammalarsi. Si realizza così il sogno bagnato dell’industria farmaceutica: curare tutte le persone sane, ridefinendole come malati potenziali.

Non ci facciamo illusioni. Questo sistema sanitario ha scelto la via del controllo e della gestione politica della vita e della morte dei suoi cittadini. In cambio di un’illusoria promessa salvifica, vuole la resa incondizionata degli individui a un controllo totale della propria vita, cedendo la propria libertà e autodeterminazione in cambio di “cure” – erogate per il bene di tutti piuttosto che per il bene di ciascuno.

Non si fermeranno, e sono pronti, sempre in nome del nostro bene, a lasciare a terra chiunque si ostinerà a non cedere la propria libertà interiore e la propria dignità personale, consapevole e responsabile.

Questa non è più una battaglia politica: è la battaglia epocale fra due diverse visioni della vita, che richiede un salto di consapevolezza e di accettazione.

Accettare la vita. Accettare la morte. Accettare la sofferenza e la gioia. Accettare l’incertezza delle scelte guidate dal senso interiore e dall’amore reciproco.

Come cittadini che desiderano farsi carico della propria salute psicofisica e spirituale, come genitori e come professionisti – medici, psicologi, ostetriche, infermieri, farmacisti, biologi e chiunque altro operi nella sfera della salute al di là delle etichette – abbiamo solo una possibilità: continuare a esistere con integrità, e ad operare “in scienza e coscienza” per nutrire relazioni di cura e di accudimento che siano connesse alla vita e alla libertà di esprimere pienamente e coraggiosamente il proprio potenziale unico di esseri umani. Restare integri, coerenti, compassionevoli potrà aumentare la massa critica che saprà invertire la tendenza mortificante e nullificante in un rinascimento culturale fondato sull’interconnessione e sulla crescita morale.

Antonella Sagone, 30 settembre 2023

One thought on “L’industria della salute”

  1. Manu ha detto:

    Un’analisi lucida e molto pregnante. Grazie!

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