Uscire dal circolo vizioso della violenza
L’idea comune di educazione è legata all’obiettivo di crescere i figli in modo che diventino persone civili, rispettose, capaci di interagire in modo appropriato e garbato con il prossimo, di suscitare fiducia, rendersi amabili e apprezzate nella comunità.
Il paradosso è che per troppi ancora è valida la credenza che per ottenere questo risultato si debba “correggere” ogni comportamento del bambino che non sia accettabile per l’adulto infliggendogli punizioni anche fisiche e trattandolo in modo incivile, irrispettoso, inappropriato, sgarbato, suscitando nel cuore del bambino paura, odio e disprezzo.
Per quanto riguarda l’efficacia di certi metodi, gli studi mostrano che hanno una loro efficacia a breve termine: infatti in genere il bambino interrompe il comportamento deprecato; ma questi risultati spesso non sono duraturi, e soprattutto, i motivi per cui il bambino corregge il comportamento non sono quelli giusti: infatti non lo fa per una comprensione dell’inappropriatezza del suo gesto, perché ha capito che questo crea un pericolo o un disagio, ma lo fa solo per paura di sperimentare ancora quell’aggressione, quella violenza, quella negazione dell’amore che per lui o lei è la cosa peggiore che possa accadere.
Nel precedente articolo abbiamo proprio esplorato perché l’educazione basata sulla violenza sia una contraddizione insanabile.
Che dalla violenza e dalla negazione dell’amore possa nascere la gentilezza d’animo e la solidità emotiva è un’idea così insensata che si fatica a capire come sia possibile che tante persone ne siano così profondamente convinte, al di là non solo delle numerose prove delle ricerche scientifiche, ma anche del semplice buon senso. Proviamo dunque ad inoltrarci nelle profondità delle emozioni, quelle suscitate dall’adulto nel bambino ma soprattutto quelle che emergono nell’adulto che reagisce con l’ira ai comportamenti non adeguati dei bambini.
Una ferita profonda
La violenza da mia madre l’ho ricevuta sempre e solo per il cibo, perché rifiutavo di mangiare quanto e cosa mi proponeva. Alcuni cibi mi disgustavano, in particolare la carne, ma all’epoca era convinzione che si dovesse mangiare ogni giorno, e i bocconi andavano giù a suon di schiaffi. Mia madre era davvero convinta di doverlo fare per il mio bene, perché la mia resistenza a mangiare sembrava invincibile. Per nessun altro motivo ha mai alzato le mani su di me, ma questa esperienza mi ha segnato e ha reso il mio rapporto con il cibo per molti anni difficile e sofferto, e minato la fiducia che provavo in lei rendendomi solo più insicura, oltre che sbagliata, dato che non lo facevo apposta ma il mio disgusto per certi cibi era reale.
Uno degli effetti deleteri delle punizioni fisiche, oltre alla violenza in sé, è la consapevolezza che l’adulto, la persona che il bambino ama, non comprende il perché profondo del suo comportamento, e sembra non recepire lo sconcerto, il dolore e il panico che egli prova di fronte alla collera, alle urla e ai colpi che riceve.
Ma che ne è, nella persona punita, della consapevolezza del perché riceve la punizione? Le cose spesso non vanno nella direzione desiderata.
Ricorderò sempre il giorno che mia madre mi ha sculacciato. È stata l’unica volta che è successo, ma queste botte in una zona così intima mi hanno sconvolto, facendomi piangere disperata per un’intera giornata. Ricordo che smettevo esausta ma dopo un po’ riprendevo, perché in realtà desideravo ardentemente che mia madre mi abbracciasse e mi dicesse che non era più arrabbiata con me. Ma non successe nulla del genere, lei ritenne di dover mantenere la sua posizione per farmi capire che quello che avevo fatto era davvero grave. Ricordo la gola e gli occhi che bruciavano. Ricordo pianti dietro una porta chiusa. Ricordo, soprattutto, i momenti di puro sconvolgimento per quell’atto impensabile su di me, e lo ricordo come se fosse calato un buio profondo e improvviso nella stanza. Ricordo ogni cosa… meno una: non riesco a ricordare per quale motivo avessi meritato una punizione così severa!
È proprio così: si pensa che “a mali estremi, estremi rimedi”, e che una risposta “forte” da parte del genitore sia un deterrente migliore e corregga con più efficacia un comportamento; ma di fatto, i momenti di paura o rabbia sono permeati di adrenalina, un ormone che sigilla nella memoria il ricordo dell’evento traumatico ma nello stesso tempo spegne la capacità di ragionare, fare connessioni e memorizzare ciò che è successo immediatamente prima, cioè proprio il comportamento che è stato sanzionato.
Questa rimozione post-traumatica è uno dei meccanismi che spiegano perché l’adulto che ha ricevuto un’educazione repressiva sembra abbia difficoltà a fare la connessione e riproduce quindi spesso le stesse modalità educative sui propri figli.
Un altro meccanismo difensivo che il bambino picchiato mette in atto è quello di scindere la sua consapevolezza dalla percezione delle emozioni, troppo dolorose o spaventose, e quindi mentre il ricordo delle botte resta, è asettico, non accompagnato dalla memoria di ciò che si è provato al momento, anzi, a volte è ridefinito come un fatto divertente, minimizzato, ridicolizzato. Purtroppo questa operazione difensiva, necessaria nell’infanzia, permane nell’età adulta e si innesca di nuovo tutte le volte che un conflitto degenera in violenza, permettendo al genitore di perpetuare gli stessi “metodi” sui propri figli.
Le emozioni dei genitori
La rimozione delle emozioni provate da bambini sono spesso accompagnate anche da una ridefinizione delle esperienze di punizione fisica, in cui l’adulto viene glorificato e legittimato, mentre l’adulto definisce se stesso bambino come manchevole e così incorreggibile da aver costretto i propri genitori alle botte. Infatti per un bambino la fiducia e l’amore dei genitori è così importante che preferiscono biasimare se stessi piuttosto che loro.
Ma questi sentimenti negati non spariscono per magia, restano attivi sottotraccia e riaffiorano quando il bambino, diventato a sua volta genitore, si trova davanti a comportamenti del proprio figlio che ravvivano gli antichi conflitti.
Il senso di impotenza è uno dei vissuti che maggiormente innescano la sculacciata o lo schiaffo: ci si sente impotenti e non si conoscono, purtroppo, per non averli sperimentati, altri modi per dirimere i conflitti e guidare i comportamenti del bambino. Si ha inoltre difficoltà a capire i motivi di un dato comportamento, e anche delle emozioni stesse del proprio bambino. Non reggiamo il pianto del bambino perché risveglia in noi il dolore dei *nostri* pianti.
“Almeno ora piangi per un motivo!” viene spesso ancora oggi detto dopo lo sculaccione al bambino in preda a un “capriccio”. Quante volte l’ho sentita, l’abbiamo sentita nella nostra infanzia…
E come è cristallino il suo significato, per chi lo sa leggere: la frustrazione di un adulto incapace di comprendere il motivo dei pianti di suo figlio, e che per questo ha bisogno di definire il figlio come cattivo, capriccioso, stupido, furbo, di sminuire il suo stress e dolore, perché lo vive come una squalifica della sua capacità genitoriale.
“Quando perdo la pazienza e urlo, mi sento completamente incapace”, dice una mamma. Ma non dipende tutto dal genitore. Anche l’adulto fa parte di un contesto sociale che può aiutarlo a superare l’educazione ricevuta e a non cedere alla violenza; oppure può esacerbare i suoi sentimenti di inadeguatezza e di frustrazione.
Io sono cresciuta a pane e pedagogia nera e ho la tentazione irrazionale a volte di caderci con mia figlia, gli scoppi di rabbia e pianto in questi due anni e mezzo mi hanno messo a dura prova, facendo scattare meccanismi che mi portano a reagire come i miei genitori. Rischio di perdere la pazienza e spesso sono sbottata, sentendomi in colpa. Sto cercando di cambiare prospettiva; è difficile a volte, ma quando ci riesco mi dà tanta pienezza e mi godo appieno mia figlia.
Cediamo agli scatti di ira perché manca il tessuto di supporto intorno a noi. I commenti e gli sguardi degli altri, invece di sollevare, aggiungono altro carico o ci confondono. IL clima giudicante ci fa pensare che il bambino “non dovrebbe” fare così o sentirsi così; le aspettative bruciano sul nascere la possibilità di comprendere cosa sta davvero succedendo al bambino, al di là del suo comportamento inappropriato.
Un contesto giudicante può esacerbare i sentimenti negativi. Occorre un lavoro su noi stessi per separare l’esperienza passata dal presente e guardare in modo obiettivo ciò che ci succede. Quando si smette di autoriferirsi ogni cosa, cioè di prenderla sul personale, si sta molto meglio. Ogni persona, e le sue esternazioni anche violente, ci parlano di quella persona, e non di noi stessi. Così come i nostri comportamenti non sono la causa dei sentimenti o delle reazioni altrui, che sono invece anche nel loro caso originate dalle proprie aspettative e giudizi.
Infine, una riflessione che forse può aiutarci a riavvicinarci ai nostri figli in crisi, e ritrovare la connessione con loro. Spesso noi genitori quando il bambino piange o “pianta una grana” ci sentiamo confusi, in collera, disperati, frustrati, impotenti, soli… ebbene, ricordiamoci che le nostre emozioni sono spesso sintonizzate con quelle dei nostri bimbi. Avete mai pensato che forse state semplicemente “risuonando” delle stesse emozioni che sta provando vostro figlio, proprio nello stesso momento?
Uscire dalla logica della prova di forza
Anche io ero tra chi diceva che un paio di sculaccioni risolvono, con bambini troppo ingestibili. Poi son diventata mamma, ho capito che non capivo niente.
Mi son fatta diverse domande.
Sicuramente non sono perfetta, l’urlo “adesso basta” mi scappa. Se rischio di perdere la pazienza esco dalla stanza, prendo fiato e rientro.
Sto provando ad essere diversa.
Mi ripeto spesso che vorrei essere quel genitore dal quale piace stare la domenica, e non quello dove incominci a pensare a limitare i tempi del pranzo di Natale due mesi prima e, se magari puoi, andartene direttamente per evitare.
Chi ha subito un’educazione violenta (che si tratti di schiaffi, violenza verbale, colpevolizzazione o punizioni varie) può reagire istintivamente in due modi: assorbendo quella violenza come giusta e amorevole (per poter rimuovere il dolore emotivo del sentirsi rifiutato e tradito dalle persone che più si amava al mondo) e quindi riproducendola nei confronti dei propri figli; oppure conservando dentro di sé questo dolore, insieme a risentimento e rifiuto per l’approccio usato dai genitori, e quindi ripromettendosi di non ripetere gli stessi errori. In questo caso però, in assenza di modelli alternativi, ci si limita a spostarsi sul polo opposto dello stesso asse del potere, cioè il potere che era esercitato dai genitori viene ceduto al figlio, lasciando che sia lui a “comandare”. In pratica accondiscendendo a tutte le sue richieste, cercando di compiacerlo il più possibile, essendo “dolci”. Si spera in questo modo di ottenere dei figli felici e amorevoli, invece di amareggiati, ostili, spaventati o feriti come ci si era sentiti da piccoli. In questo modo però il bambino viene privato di quella funzione di guida di cui ha bisogno da parte degli adulti.
L’alternativa vera è uscire da questa logica, e cioè che qualcuno abbia lo scettro del comando e decida per tutti. Uscire dalla logica per cui noi genitori siamo qui per modellare i comportamenti dei nostri figli o peggio, determinare i loro sentimenti, la loro felicità. Andare oltre la logica del potere significa andare più in profondità ed esplorare il piano dei sentimenti e dei bisogni: i nostri e quelli del bambino. Non significa dire sempre di sì, ma dire di no o di si con comprensione e con gentilezza, e solo dopo aver esplorato i bisogni che alimentano il conflitto e aver cercato soluzioni alternative per rispondere a quei bisogni.
L’approccio empatico non è un metodo educativo ma solo un modo di essere nei confronti dei nostri figli. è un’attenzione ai sentimenti e ai bisogni dell’altro. Esiste a prescindere da “chi comanda” (cioè prende le decisioni o fa le scelte) in un dato momento, perché queste decisioni e scelte verranno prese sempre tenendo conto dei sentimenti altrui, dei bisogni di tutti, accogliendo emozioni positive e negative che ne potranno scaturire, proprio allo stesso modo.
Un’altra educazione è possibile!
Mia figlia ha 8 anni e mezzo: mai urlato, mai alzato le mani. È una bambina serena, responsabile, molto sensibile e attenta. In passato ci sono stati momenti difficili e sicuramente ce ne saranno in futuro. Crescere vuol dire sperimentare nuove parti di sé e per un genitore significa saper rimanere saldo anche durante la tempesta e tenere a fuoco l’obbiettivo pedagogico, cioè aiutare i figli a diventare autonomi e a individuare la propria strada.
L’approccio empatico non ha uno “scopo” (cioè ottenere bambini che si comportano in un dato modo o la pensano o vivono in un dato modo), ma si verifica semplicemente perché chi ha acquisito una certa sensibilità non può fare diversamente.
È un modo di essere autentici, onesti con se stessi e con i propri figli. Imparare a tollerare, senza giudicare o giudicarsi, la verità delle emozioni, delle fragilità, delle incoerenze, dei limiti personali; ma è anche praticare e coltivare quella gioia che favorirà la cooperazione e la connessione fra tutti i membri della propria famiglia.
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