Qualcuno volò sul nido del vegan

Qualcuno volò sul nido del vegan - I parte

Una settimana in ospedale… da vegana. Cronaca della mia esperienza di sopravvivenza. (Non vi preoccupate! È successo 20 anni fa!)

GIORNO ZERO

Si parte!

Ore 12.00. Sto facendo in gran fretta la valigia, chiamata all’improvviso dal Megaospedale, perché per uno di quei misteriosi percorsi del destino si è liberato un letto nel reparto dove sono in lista d’attesa da ben sei mesi per un piccolo ma necessario intervento chirurgico. “Accetta? Deve dirmelo subito o perde il posto” mi fa il Segretario (di cui fino ad oggi ignoravo l’esistenza).

Che dire? Ho detto di sì, ed ora, mentre tutti si preoccupano della mia salute, io mi aggiro in cucina ammassando frutta, noci e avanzi di legumi e cereali, come un criceto prima dell’inverno.

Sì, perché io, vegan e per di più alle prime armi (meno di un anno), non solo non sono stata via da casa per più di quattro giorni, da quando ho abbandonato i cibi animali, ma non ho mai fatto un giorno d’ospedale in vita mia.

E vabbè, mi faccio coraggio: dove mancherà l’esperienza, supplirà l’immaginazione.

Contenuto delle mie valigie…

… dal quale si deduce chiaramente quanto la veganomania abbia già provocato le tipiche degenerazioni cerebrali di cui tanti luminari parlano.

– Una grossa sacca di cuscini, lenzuoli e simili (ho sentito storie poco rassicuranti sugli ospedali).

– Una piccola borsa pesante una tonnellata, contenuto: libri di ricette vegan, dieta Kousmine e simili, più vari altri libri di saggistica noiosissimi sui più diversi argomenti (ancora mi chiedo perché me li sono portati dietro).

– Borsa salvavita: telefonino, soldi, lettore CD portatile più assortimento di New-age / celtica / Branduardi / Battiato.

– VALIGIA STRAPIENA contenente articoli da toeletta minimi, 6 mutande, 1 canottiera e 2 camicie da notte. MA allora strapiena di che, direte voi? EH EH qui viene il bello, adesso ve lo dico.

Ho arraffato tutta la frutta e i limoni BIO di casa, e barattoletti pieni di salsine fatte con le mie mani, alle quali ho aggiunto un velo d’olio sperando sopravvivano al clima monsonico dell’ospedale. C’è il gomasio e la farina di sesamo e grano saraceno appena macinati, pasta di aglio e peperoncino per la gioia dei sanitari che dovranno conversare con me, semi di girasole, albicocche secche, pane fatto in casa, pesto vegetale, avanzi di legumi per la felicità delle mie compagne di stanza, e molte altre cose di cui per ora preferisco tacere… ah, e un ciuffo di prezzemolo ficcato all’ultimo momento fra i cuscini, in un raptus di angoscia da separazione.

Chiudo tutto in un anonimo scatolone di cartone che sigillo, perché superi l’occhio inquisitore (presunto) della dogana ospedaliera (sì, sono già preda di deliri persecutori), nonché quello accusatore di mio marito che sollevandola dice:

MACCHEDDIAVOLO CIAI MESSO, le pietre?

Il momento della verità

Sono già accasata nella mia stanza, i miei “tesori” gastronomici discretamente occultati o sparsi sui microscopici ripiani del comodino e della sedia, quando l’infermiera entra e mi fa LA DOMANDA.

“Signora sta seguendo diete particolari?”

Mi trattengo dal rispondere “La mia dieta è normale, e la sua?”, e dico, non senza un brivido per il mio ardimento: “Sono vegetariana” (no, non ce l’ho fatta a dire vegana, già immaginavo lo psichiatra chiamato d’urgenza: “Allora cara signora, da quanto tempo ha questa convinzione di provenire da un altro sistema solare?”).

“AH”, è il commento sibillino dell’operatrice, che scompare in fretta (mi considera contagiosa?).

Uno, due minuti e si riaffaccia altro infermiere con cartella clinica in mano: “Signora ma allora lei può mangiare il pesce?”.

Crisi di identità

Sono tornati una terza volta a chiedermi cosa mangio, e io ho spiegato che non mangiavo né carne e né pesce, uova sì (poi sono facili da scansare, ho pensato), ai formaggi ho detto che ultimamente sono diventata un po’ intollerante (BUGIA – o forse no, chissà, dato che da quando ho smesso di mangiarli ho perso 12 chili e sono rifiorita in salute!).

Non commenta e prende nota, e poi mi chiede che farmaci prendo e a quali sono allergica.

“Non lo so”, rispondo, “non ne ho presi quasi mai in vita mia”.

Il mio intervistatore mi guarda in modo opaco e poi ripete la domanda: quali farmaci prendo, a quali sono allergica?

Riprovo: non prendo farmaci, ma ripensandoci una volta ho preso un antibiotico e mi ha dato fastidio.

Finalmente può scrivere qualcosa in cartella e così se ne va.

Pochi minuti dopo un terzo si affaccia: “Signora lei li prende i farmaci?”

Mi chiedo se faccio parte di una categoria non contemplata dalle loro classificazioni.

Solo il giorno dopo, quando il medico mi farà domande sulla mia “grave malattia metabolica”, scoprirò che per errore sulla mia cartella c’era scritta la diagnosi di qualcun altro.

Arriva la cena

Ore 18.15, arriva la mia cena vegetariana! 3 pugni di fagiolini lessi e una tragica minestrina stracotta in brodazzina di dado vegetale sciapo. E una rosetta in similgomma avvolta in vero cellophane biologico. Ah, dimenticavo il pezzo forte: stracchino monodose della Invernizzi (pure della Nestlè me lo hanno dato, maledizione!).

Butto lo stracchino in fondo al cestino dei rifiuti, divoro la miserrima verdura e mi pappo anche la minestra, devo dire molto migliorata dopo aver tolto e buttato tutta la pastina e messo dentro qualche “piccola” aggiunta del mio arsenale: Gomasio, peperoncino, lenticchie, crema di piselli, aglio, limone spremuto e un ciuffetto del mio adorato prezzemolo, staccato dopo avergli debitamente chiesto scusa.

Il tutto compiuto guardandomi furtivamente alle spalle (non vorrei subire castighi terrificanti per aver sabotato la dieta prescritta).

Mi addormento in preda a delirio di onnipotenza, e alla folle convinzione di aver tutto sotto controllo.

PRIMO GIORNO

il buongiorno si vede dal mattino

Si comincia senza problemi, dato che devo digiunare per i prelievi di rito. Durante il dissanguamento mi concentro su pratiche esoteriche (“ferro, da bravo, vai nella siringa! ”) e poi do alle ben NOVE provette di prezioso sangue Vegan Extravergine un ultimo amorevole sguardo d’addio.

Qui si parrà la mia nobilitate!

Poi la colazione. Facile anche qui, mi faccio dare un tazzone di orzo, il che appaga il senso del dovere dell’infermiere ausiliario; poi procedo con la mia VERA colazione, una ciotolona di macedonia da me approntata, con la mia frutta e alcune semplici, piccole aggiunte: mezzo limone spremuto, farina di saraceno, semi di girasole, frutta secca, marmellata e quattro corbezzoli colti l’altro ieri nel viale avanti casa (una lacrima di commozione, prego).

Gli altri pazienti non osano commentare, forse intimoriti dal mio atteggiamento noncurante e determinato. O forse semplicemente stanno aspettando che mi allontani un momento per chiamare il soccorso psichiatrico.

Il mio primo pranzo

È mezzogiorno, e in osservanza al mio menù vegetariano arriva pastasciutta, purè e una mozzarella.

Veramente “pastasciutta” lo dico per esclusione, essendo improbabile che condiscano con il pomodoro rifiuti speciali ospedalieri.

La “cosa” consiste di una diecina di enormi oggetti rettangolari, biancastri e appiccicati fra loro in un unico blocco, che forse molte ore prima erano stati maccheroni. In quanto al purè, è così acquoso da essere rassicurante – probabilmente non c’è il latte. Preferisco sorvolare sul tipo di sostanza originaria dal quale è stato sintetizzato, e lo mangio dopo averci incorporato un po’ di tutto, compreso l’ultimo rimasuglio della mia purea di piselli.

Anche la pasta migliora dopo l’aggiunta della mia salsina “Taleban” a base di peperoncino calabrese, zenzero fresco, pasta d’olive e capperi.

Due ore dopo scopro con orrore di aver dimenticato a casa tutti i miei generi di conforto dolciario d’emergenza: castagnaccio, torta sbrisolona e pan di spezie. Il mio senso di onnipotenza crolla come un castello di carte.

Per farmi forza sbrano una pera a mani nude.

Intermezzo

Una parente di un vicino di stanza mi propone di fare due passi fino al piano terra, io accetto e apro lo stipetto delle scarpe, ma lo richiudo subito coprendolo col mio corpo: mi ero dimenticata che, accanto ai miei mocassini, avevo nascosto un grosso broccolo siciliano da centellinare nelle insalate.

Poco più tardi mi capita di dire ad uno dei degenti “perché sa, dato che sono vegetariana” e lui “sì, in effetti lo avevo sentito”. Questo mi conferma: essi SANNO.

Era quell’ora che volge il desio…

…di una zuppa di verdure, cereali e legumi. Invece… arriva la mia cena personalizzata a base di brodazzina con pastina, spinaci e un enorme spicchio di caciotta. Gli spinaci (o cicoria, o bieta, sono talmente cotti che aspetto e sapore non danno alcun indizio) sono in dosi omeopatiche (4 cucchiaini circa); la brodazzina subisce lo stesso trattamento di quella della sera precedente. Anzi, ci incorporo pure la verdura cotta, fingendo di mangiare la zuppa dei miei sogni (si può cadere così in basso in così breve tempo??). Anche la caciotta fa la fine del formaggio del giorno prima.

Peccati notturni

Resa inquieta dall’assottigliarsi delle mie scorte, e dall’avvicendamento della mia compagna di stanza, mi aggiro per i corridoi del reparto in crisi d’astinenza da croccante alle mandorle.

Lì, in una saletta d’aspetto traboccante di vecchie copie di “Famiglia Cristiana”, incontro il Diavolo, sotto le vesti di un ingegnere elettrotecnico di mezza età, sovrappeso e anche lui in attesa di intervento.

Dopo avermi stordito con chiacchiere futili, mi scarta dalla stagnola la Tentazione Assoluta: una perfetta, rotonda e fragrante crostata di ricotta con pezzetti di cioccolato fondente, fatta quel giorno stesso da una parente del suo vicino di stanza napoletano.

“Prendo solo il bordo”, comincio col dire, giustificandomi in modo penoso. Poi, fra una chiacchiera e l’altra, fra una fettina a “carta velina” e l’altra, si consuma il mio Primo Peccato di fragile e solitaria Vegan.

Lo spirito è forte; ma la carne è debole (o, se volete, il tofu).

Leggete qui la seconda parte.

Antonella Sagone, 13 gennaio 2022

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