Essere genitori, fra ideali e realtà

Essere genitori, fra ideali e realtà

Mi capita spesso di scrivere articoli sottolineando quelle che a volte vengono definite le “buone pratiche” nell’accudimento dei bambini. Le conoscenze di psicologia e di neuroscienze, le evidenze scientifiche, i dati antropologici ma anche il semplice buonsenso e le capacità empatiche ci aiutano a identificare quali stili di accudimento sono più adeguati a rispondere ai bisogni naturali dei bambini e a sostenerli e affiancarli nel loro sviluppo e nell’espressione piena del loro potenziale.

Parallelamente, sono ormai note varie conseguenze negative di pratiche che contrastano la fisiologia, non rispettano i bisogni e i sentimenti del bambino o forzano precocemente le loro tappe di sviluppo; per alcune pratiche recentemente introdotte, ancora non siamo in grado di sapere quali siano le loro conseguenze a lungo termine; ma dato che conosciamo abbastanza la natura della fisiologia dello sviluppo infantile, dovremmo partire dal presupposto che tutto ciò che si allontana da questa fisiologia dovrebbe dimostrare la sua innocuità o i benefici prima di essere applicato.

Nella realtà tuttavia le cose vanno un po’ diversamente dall’ideale, e in una certa misura è anche scontato che sia così. L’uomo è un animale culturale e quindi le pratiche di accudimento e di educazione del bambino piccolo vengono modulate secondo le credenze di una data epoca storica e di una data cultura, e adattate anche al sistema di vita dei loro genitori e della società che li circonda. Queste pressioni in una certa misura sono necessarie perché preparano il bambino a vivere nel mondo reale di cui deve far parte; ma quando queste influenze portano troppo lontano dai bisogni e dalle aspettative biologiche comuni a tutti i bambini, il risultato può essere una sofferenza fisica e psichica non indifferente, non solo del bambino ma anche della mamma che si senta forzata ad applicare quei “correttivi”.

La cultura del distacco

La nostra cultura osteggia la tenerezza, l’intimità e l’interdipendenza degli esseri umani, e vede il bisogno di essere accudito e il desiderio di accudire – sentimenti che figli e madri provano reciprocamente in modo naturale – come una minaccia e una vulnerabilità, che impedisce all’individuo di svilupparsi secondo il mito che si può “bastare a se stessi” senza bisogno dell’aiuto o del conforto degli altri.

Questo mito narcisistico è protetto e coltivato dalla nostra società che preferisce individui isolati e distaccati dalla vita e dalle emozioni, il cui bisogno di conforto e sicurezza sia rivolto, piuttosto che verso gli altri, verso oggetti da comprare e possedere. La cosiddetta indipendenza è il valore supremo e l’obiettivo verso il quale educare fin dalla più tenera età ogni essere umano.

Strati e strati di falsi miti sono stati creati ed assemblati assieme: come quello dei bambini viziati, furbi, prepotenti, della frustrazione come maestra di vita e motore della capacità di desiderare, dei genitori lassisti come generatori di giovani fragili, inetti o asociali, del legame amorevole verso i bambini come minaccia alla libertà dei genitori, dell’educazione come processo di modellamento del carattere a forza di premi e punizioni, dell’abitudine come causa di ogni bene ed ogni male nella personalità e nei comportamenti dei bambini. Tutti questi costrutti fittamente intrecciati fra di loro hanno un unico scopo: quello di nascondere la semplice verità che i bambini, per molti mesi ed anni, hanno un intenso e irrinunciabile bisogno di presenza di un adulto che li ami incondizionatamente, e che soffrono quando non ricevono ciò che biologicamente si aspettano dalla vita: abbracci, carezze, un seno morbido da poppare, cure sollecite, sorrisi, sguardi affettuosi e ammirati, voci carezzevoli, interazione umana ininterrotta.

Al giorno d’oggi, nessun genitore può seguire lo slancio di offrire tutto questo al proprio bambino senza incontrare ostacoli di ogni sorta, da quelli pratici (necessità di lavorare, ambienti inadatti ai bambini, separazioni forzate sin dalla nascita) a quelli sociali, cioè essere criticato, avversato, svalutato, beffeggiato o spaventato per il solo fatto di voler essere materno o paterno. E poiché i genitori stessi sono a loro volta stati bambini i cui genitori sono stati a loro volta ostacolati nel loro prendersi cura, portano dentro di loro le stesse ferite che sono spinti ad infliggere ai loro figli.

La nostra cultura del distacco si regge solo in forza di una costante e minuziosa rimozione di questa sofferenza nata dall’amore condizionato, e questo suscita reazioni difensive, di negazione o di risentimento, ogni volta che si parla dei bisogni fondamentali dei bambini.

Sentirsi giudicati

Una delle reazioni più frequenti quando si parla di cure prossimali e di amore incondizionato è quella di sentirsi giudicati. Fa parte della nostra cultura giudicare tutto e tutti, e quindi ogni posizione che si discosta dal proprio viene percepita come un attacco personale, un giudizio svalutativo del proprio essere madre o padre. Ecco alcune obiezioni tipiche.

Non voglio annullarmi facendo solo la madre. Alla fine della giornata sono esausta e vorrei solo avere un po’ di tempo per me. È sbagliato forse?

Niente affatto: si tratta di un bisogno umano e legittimo. Il fatto che una donna con un bambino piccolo si possa percepire come soltanto una madre mostra quanto sole abbiamo lasciato le madri, a sobbarcarsi un compito che dovrebbe essere effettuato all’interno di una rete sociale di sostegno, che supporti questo compito a livello pratico ed emotivo.

Il senso di deprivazione sociale ed emotivo che molte madri provano non nasce da una propria inadeguatezza, ma dalla società che ha reso i ruoli di genitore e di membro sociale attivo incompatibili fra loro, emarginando donne e bambini da una buona parte dei luoghi e delle attività sociali. Manca intorno alla madre quel villaggio che dovrebbe prendersi cura della mamma e del bambino permettendo anche un avvicendamento nei compiti di accudimento dei piccoli.

Quando parlo di necessità e giustezza di costanti cure amorevoli per il bambino, non intendo affermare un presunto “dovere” per la mamma di annullarsi con abnegazione perché il bambino ha bisogno di lei; ma piuttosto mettere l’accento sull’ostinazione con cui la nostra cultura biasima le madri che vorrebbero assecondare il bisogno di contatto e presenza del bambino, ma vengono criticate dicendo che lo viziano, che non socializzerà, come se per socializzare o rendersi autonomo il bambino dovesse necessariamente venire “staccato” dalla mamma. Il senso di annullamento e di sfinimento, il bisogno di staccarsi e riprendere fiato è sacrosanto, ma nasce dalle condizioni innaturali in cui si esercita il ruolo di genitori, forzati a portare al 100% e h/24 il peso fisico ed emotivo del bambino su di sé.

Basta con l’imposizione di un ruolo sacrificale, i tempi sono cambiati, la madre è anche donna e vuole esprimere pienamente se stessa!

Ma è la nostra cultura che isola le madri relegandole ad essere “solo” madri perché ritiene incompatibile la presenza di un bambino con tanti contesti di vita sociale e culturale. Per esperienza trentennale delle mamme e donne che seguo, e mia di due figli ormai adulti, posso testimoniare che non è affatto vero che una donna, perché è madre, non può vivere fra gli altri, lavorare, creare, avere scambi culturali con altri adulti, fare una vita piena con tutte le sue sfaccettature.

Credo che non ci sia un solo modo di essere genitore, ma solo che in diversi contesti socioculturali madri e padri esprimano diversamente i loro potenziali. Rifiuto tutto ciò che comprime il potenziale e l’espressione piena di un individuo, adulto o bambino che sia, genitore o meno, tanto oggi quanto nel passato, come in modi diversi è stato fatto.

È la nostra società a porre la donna e la madre in competizione come se una debba necessariamente annullare l’altra, mentre nella realtà ci sono tutte le possibili gradazioni, sfaccettature e coesistenza della donna e della madre, e sono tutte legittime.

Non è vero che solo chi allatta, porta in fascia, dorme col bambino e non lo sgrida mai è un buon genitore!

L’amore incondizionato, la dedizione, il contatto non possono essere oggetto di prescrizione non consistono in un determinato fare, ma in un modo di essere e di sentire, che si può esprimere in tantissimi modi e stili diversi di fare il genitore. Nessuna madre e nessuna donna deve essere giudicata per il modo in cui si prende cure del proprio figlio e per le scelte che fa. Per essere una bona madre non si deve per forza usare la fascia o allattare o dormire col bambino; ogni mamma e bambino devono trovare le loro soluzioni che funzionano meglio per loro. Semplicemente, fra le tante soluzioni accessibili a un genitore ve ne sono alcune che semplificano un accudimento prossimale e altre che rendono più complicato seguire la fisiologia e i bisogni del neonato.

Conclusioni

Non è corretto giudicare le madri per scelte che sono spesso obbligate nella nostra società, che ci forza ad allontanarci dai bisogni profondi e vitali (di bambini, uomini e donne). È sacrosanto che ogni donna possa scegliere in che modo essere madre e come conciliare questo ruolo con il resto della sua vita, ma non si possono tacere informazioni su ciò che fisiologicamente e psicologicamente sono i bisogni fondamentali di un bambino nelle varie tappe evolutive. Il problema esiste, nel senso che i bisogni del bambino di un contatto continuo e di seno, coccole e tenerezza è reale e non scompare solo perché si tenta di “abituarlo” alla solitudine.

Non si tratta di colpevolizzare le madri ma di biasimare una società che non va incontro ai bisogni non solo dei bambini, ma anche degli adulti, uomini e donne.

 L’uomo, come ogni altra specie, si evolve nell’arco di decine di migliaia di anni, non nell’arco di qualche generazione. Quello che cambia rapidamente è la cultura e i costumi sociali, e l’uso di separare i bambini dalle madri nei primi anni o mesi di vita è un cambiamento molto recente che interessa un paio di generazioni in una piccola parte dell’umanità. I costumi cambiano ma le aspettative biologiche dei mammiferi restano quelle di un prolungato periodo in cui i piccoli hanno necessità di contatto e accudimento continuo. Come umani fino a qualche generazione fa questo onere era preso in carico collettivamente dal villaggio, il che permetteva alle madri, pur rimanendo la principale figura di riferimento per il sostentamento biologico, di non annullarsi nella cura della prole. Ora invece le donne sono sole e quindi per carenza della società si trovano a dover scegliere spesso se rinunciare alla realizzazione piena del loro potenziale (almeno per alcuni anni) oppure delegare le cure parentali ad altre persone. Che più persone si avvicendino nelle cure del bambino è legittimo e adeguato, purché ci sia consapevolezza che in ogni caso si devono rispettare i tempi evolutivi del bambino e il suo bisogno emotivo, che non si emancipa a piacere per incasellarsi in un ritmo di vita alienante quale quello che pretende da loro la cultura odierna.

Le donne che vogliono vivere serenamente il loro legame con il bambino vanno sostenute e non pressate per distaccarsi precocemente, con argomentazioni non fondate sulla fisiologia e lontane dai bisogni fondamentali umani.

Conciliare la cura dei bambini e la propria vita sociale e lavorativa non è facile nella nostra società, ma può essere possibile, in molti modi, purché si ricrei intorno alla donna quella rete di sostegno e solidarietà che le permetta di esprimere pienamente il suo potenziale e sentire riconosciuto il suo impegno e la sua unicità.

Antonella Sagone, 12 marzo 2022

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