Ma insomma, questo ciuccio si può usare o no?
Il ciuccio crea problemi nell’allattamento in molti modi, ma fondamentalmente i due principali sono: efficacia della suzione del bambino, e interferenza nel meccanismo di domanda-offerta che regola la produzione di latte in base alla frequenza e durata delle poppate al seno.
Fra le raccomandazioni dell’UNICEF contenute nel decalogo dell’Iniziativa Ospedale Amico del Bambino (BFHI), il nono passo indica di mettere in guardia i genitori sull’uso di ciucci e tettarelle perché possono interferire con il successo dell’allattamento. I dieci passi, incluso questo, devono costituire un protocollo scritto che va seguito dagli ospedali che vogliono il riconoscimento BFHI.
Questo gruppo di ricercatori ha selezionato 10 studi randomizzati e controllati in cui erano stati rilevati sia i consigli dati ai genitori riguardo all’uso del ciuccio, sia la durata totale dell’allattamento, e quella dell’allattamento esclusivo. 5 studi riguardavano bambini a termine e 5 studi neonati prematuri ricoverati in TIN. I dati degli studi sono stati accorpati ed elaborati statisticamente. Confrontando i bambini a termine alle cui madri era stato consigliato di limitare l’uso del ciuccio, con il gruppo di quelli che non avevano ricevuto tale consiglio, si è riscontrata scarsa o nulla differenza in termini di durata dell’allattamento esclusivo, e in termini di durata totale dell’allattamento.
Questi risultati cozzano contro l’esperienza clinica pluridecennale degli operatori sanitari che si occupano di affiancare le madri che allattano. Ciò che quotidianamente viene riscontrato, è un impatto significativo dell’introduzione del ciuccio, sulla crescita del bambino, l’efficacia della suzione al seno, l’interesse del bambino per il seno, l’esclusività dell’allattamento (cioè l’introduzione di integrazioni), la produzione di latte, il declino progressivo dell’allattamento al seno. Questa problematica è ben descritta in dettaglio in questo articolo.
Questo studio è un esempio da manuale di cosa succede quando si applica un «metodo scientifico» basandosi su categorie astratte non corrispondenti alla realtà, o che possono venire inficiate da prassi e comportamenti non presi in considerazione. In altre parole, si misura in modo rigoroso qualcosa che però è diverso da ciò che si pensa di stare misurando.
Infatti non c’è da stupirsi se non si sono trovate grosse differenze fra i due gruppi, dato che non si è controllato, ad esempio, se poi i genitori seguivano o meno le raccomandazioni date in ospedale; l’unico studio esaminato che lo ha fatto ha trovato un elevato numero di «disobbedienze» alle indicazioni ricevute. Inoltre gli esiti sono stati rilevati in quasi tutti gli studi fino a sei mesi (solo uno a nove mesi, ed è quello che dà risultati che si discostano dagli altri): un periodo troppo breve per vedere gli effetti di un accorciamento della durata totale dell’allattamento in caso di uso di ciuccio. Infine, non conosciamo la presenza o meno di conflitti di interesse per gli autori dei singoli studi presi in esame.
Gli autori concludono che «La decisione se dare o no il ciuccio dovrebbe essere lasciata alla persona che si prende cura del bambino, e non dipendere dalle politiche ospedaliere o dai consigli dello staff»: una chiara sfida non solo al nono passo BFHI, ma anche al primo passo, che raccomanda al personale del reparto di maternità di attenersi a un protocollo scritto.
Un discorso a parte richiede la valutazione degli studi sui prematuri. Da questa metanalisi emerge che far succhiare un ciuccio ai prematuri si associerebbe a un passaggio più precoce dall’alimentazione per gavage a quella orale, e a dimissioni più precoci. Peccato che è un dato di esperienza noto a chiunque lavori con le madri che allattano il fatto che sia prassi nelle TIN utilizzare la capacità di succhiare un ciuccio e un biberon come indicatore della acquisita capacità di suzione, e prerequisito indispensabile per alimentare oralmente e in seguito dimettere il bambino, mentre la capacità di succhiare al seno non viene spesso accettata come criterio valido!
Per approfondire questa problematica, potete leggere questo articolo, che analizza più a fondo lo studio in questione.
In conclusione, il metodo scientifico è prezioso e affidabile, ma spesso il suo uso e l’interpretazione che si dà dei suoi risultati non lo è altrettanto, e può impattare negativamente sulle raccomandazioni e sulle prassi, portando di fatto a rafforzare pregiudizi e approcci lontani dai reali bisogni delle madri e dei bambini che allattano.