Ciuccio e scienza: il difetto sta nel manico
Maria, che allattava esclusivamente sua figlia da due mesi, con una buona crescita e senza problemi particolari, si rivolge a me perché da due settimane la crescita della sua bimba sembra crollata, il seno sembra sgonfio e tutti le stanno dicendo che forse il latte sta finendo o manca ormai di sostanza. Da un’indagine breve scopro che una ventina di giorni prima la mamma si era decisa a dare il ciuccio a sua figlia, perché sembrava chiedere il seno troppo spesso, anche 10-14 volte al giorno, e “nonostante i due mesi” continuava a svegliarsi un paio di volte di notte. Le era inoltre stato detto che stava entrando nella fase di maggior rischio per la SIDS e il ciuccio durante il sonno la preveniva.
Storie come queste ne ho sentite migliaia in questi 30 anni, ed è per questo che mi sono molto arrabbiata quando ho letto di uno studio che con “alto livello di evidenza” proclamava che il ciuccio si può dare tranquillamente dalla nascita, tanto non interferisce con la riuscita dell’allattamento al seno.
Sono andata a leggermi tutto lo studio (di cui una sintesi è già pubblicata qui), ed ecco che cosa ho scoperto.
Il punto dolente dello studio non è tanto nel disegno della metanalisi, quanto negli studi selezionati dai quali sono stati attinti i dati. Gli autori dichiarano che i punti di debolezza della loro metanalisi potrebbero essere una certa eterogeneità degli interventi negli studi originari e la loro piccola dimensione; tuttavia, vi sono molti altri aspetti critici.
Punti deboli degli studi di base
1) In primo luogo, le metodologie degli studi sono imprecise:
– non sappiamo quale controllo è stato effettuato nella selezione degli studi, riguardo al modo di raccogliere le informazioni (ad esempio, se si tratta di cartelle cliniche, interviste ai genitori, e quale sia il recall period, cioè se le domande sono state fatte relativamente alle ultime 24 ore (dati affidabili) o in modo generico. Di fatto, chi lavora quotidianamente accanto alle donne che allattano è in grado di capire piuttosto rapidamente se la raccolta dati ha qualcosa che non va, come in questo studio di Jenik che fa parte di quelli selezionati, in cui si afferma che la proporzione di allattamento esclusivo a 3 mesi era dell’85,8% nel gruppo che aveva inserito il ciuccio a 15 giorni e del 86,2% nel gruppo che non lo aveva fatto: percentuali molto lontane dalla realtà e dalla media statistica, che mostra come una vasta proporzione di neonati (ben oltre uno scarso 15%) normalmente riceve qualcosa di diverso dal latte materno (formula, acqua, tisane) già a due o tre settimane di vita;
– solo uno degli studi (Kramer et al) è “a doppio cieco”, cioè gli operatori che raccolgono i dati e che li elaborano non erano a conoscenza del gruppo di appartenenza dei genitori intervistati. Conoscere il gruppo di appartenenza può far entrare in gioco le aspettative dell’intervistatore, facendo involontariamente influenzare le risposte;
– da quanto traspare dagli abstract, laddove l’effettiva frequenza di uso del ciuccio viene misurata (non in tutti gli studi si fa), il confronto è fra gruppo che lo usa di meno e gruppo che lo usa di più, ovvero non c’è un gruppo di controllo che NON USA AFFATTO il ciuccio;
– non sono state approfondite le cause di abbandono precoce dell’allattamento esclusivo o di qualsiasi allattamento. Questo impedisce di discriminare il nesso causale eventuale fra uso di ciuccio (o meglio, di raccomandare o meno il ciuccio) e abbandono dell’allattamento;
– il periodo in esame è generalmente breve e non supera i sei mesi quando va bene, mentre sappiamo che la durata naturale dell’allattamento si misura in anni. Ciò impedisce di vedere le conseguenze a lungo termine nell’introduzione del ciuccio. Solo lo studio di Howard va oltre (52 settimane), e le sue conclusioni sono opposte a quelle della metanalisi, cioè l’uso precoce di ciuccio o tettarella incide sull’allattamento esclusivo e sulla sua durata totale.
2) In secondo luogo, gli studi misurano cose diverse da quelle dichiarate nelle conclusioni:
– gli studi focalizzano in realtà NON sull’uso o meno del ciuccio, ma sull’utilità o meno del raccomandarne l’uso: sono due variabili molto diverse;
– in tre studi su 5 (Jenik, Scubiger, Hermanson) le categorie che rilevano gli outcomes accorpano l’allattamento esclusivo con l’allattamento pieno (cioè esclusivo +predominante), che significa che nel gruppo con “poco ciuccio” non è detto che i bambini non conoscano la tettarella per assunzione di altri liquidi o forse, a volte, anche di qualche “giuntina”;
– questo significa anche che nei gruppi confrontati non sempre si è appurato se il bambino, pur non ricevendo il ciuccio, conosceva la tettarella del biberon, il che ovviamente smorza le differenze nei risultati; l’unico studio (Howard et al) che isola questa variabile mostra come il ciuccio incida non sull’esclusività dell’allattamento, ma sulla sua durata complessiva;
la compliance non è stata misurata se non in due studi (Hermanson et al; Kramer et al) che rilevano come sia estremamente bassa, cioè le madri usavano il ciuccio anche nel gruppo in cui era consigliato di limitarne l’uso. In poche parole, la scarsa differenza negli output potrebbe dipendere dalla scarsa efficacia delle raccomandazioni date in ospedale alle madri, come è confermato nello studio di Kramer, che una volta raggruppati i casi secondo l’uso effettivo o meno del ciuccio, a prescindere dal gruppo di appartenenza, ha trovato una forte associazione con l’abbandono precoce dell’allattamento.
3) Per finire, gli autori dichiarano “nessun conflitto di interesse”.
Ma non sono riuscita, non avendo accesso allo studio integrale, a vedere se ve ne sono fra gli autori dei singoli studi esaminati. Sappiamo bene che a volte questi conflitti di interesse ci sono eccome, l’esempio più famoso è quello dello studio su ciucci come protezione dalla SIDS, all’origine delle raccomandazioni per l’inserimento del ciuccio dopo il primo mese: ricerca finanziata dalla MUM (azienda che produce ciucci).
Conclusioni
Questo studio, sebbene utilizzi strumenti scientifici con alto livello di evidenza (metanalisi di studi randomizzati, strumenti statistici di minimizzazione delle variabili confondenti, ecc) espone conclusioni incongruenti e poco plausibili. Il difetto sta nel manico, e cioè nel fatto che misura l’impatto di due tipologie di consigli che differiscono poco fra loro: consigliare o meno l’uso “ristretto” (nota bene: non il non uso!) del ciuccio da parte del personale ospedaliero, quindi nei giorni di ricovero. Se dovessimo riformulare correttamente cosa viene fuori da questi studi, potremmo dirlo così:
Consigliare o meno alle puerpere nei gg di ricovero in ostetricia di limitare l’uso del ciuccio nei primi tempi, senza considerare fattori di impatto sull’allattamento come l’uso di integrazioni o una corretta educazione a valutare corretto posizionamento, attacco e suzione, né spiegare il concetto di allattamento a richiesta, serve a ben poco rispetto alla durata dell’esclusività e del periodo totale di allattamento nei primi sei mesi.
Dov’è il problema di questa metanalisi e di tutti gli studi “scientifici” che usano la “tecnica” (rilevazione dei dati, elaborazioni statistiche eccetera) correttamente ma la applicano in modo viziato – soprattutto nelle conclusioni? Come dico sempre, è nel momento del “E QUINDI…” cioè dell’interpretazione dei risultati.
L’impatto dei pregiudizi continua infatti ad incidere ad ogni passaggio nella divulgazione dei risultati. Così le conclusioni, già viziate, dello studio: “Consigliare o meno il ciuccio non fa differenza e quindi non è importante sconsigliarlo” divengono rapidamente “Non ci sono prove scientifiche che il ciuccio interferisca con l’allattamento”, e poi “Si può tranquillamente consigliare l’uso del ciuccio sin dai primi giorni”, o persino “Il ciuccio va raccomandato da subito”, magari perché “previene la SIDS”, come concludono già gli autori di uno degli studi in esame, chiamando in campo anche il famigerato studio della NUN come se fosse oro colato.
Come IBCLC da un quarto di secolo, ho avuto abbondantemente modo di verificare l’impatto del ciuccio che non sempre, ma in una grande maggioranza di casi, ha sull’allattamento al seno: in questo articolo illustro abbondantemente tutte le criticità che possono ostacolare la sua buona riuscita. Tuttavia, questa esperienza non è tenuta in gran conto dal mondo scientifico. Il dato “esperenziale” dei professionisti che si occupano, magari da decenni, di allattamento al seno viene considerato di quarta categoria rispetto a uno studio scientifico con un disegno rigoroso; i dati dei professionisti vengono definiti come “aneddotici” e il livello di evidenza loro assegnato è molto basso. Certamente il metodo scientifico ci fornisce strumenti preziosi e rigorosi per estrapolare i dati della realtà; ma anche l’esperienza degli operatori sul campo è preziosa e dovrebbe illuminare la strada dei ricercatori quando progettano il disegno di uno studio. Altrimenti, le tante Marie che si rivolgono a noi consulenti in allattamento continueranno a subire pressioni per usare il ciuccio e, dopo averne introdotto l’uso perché “tanto non fa differenza”, vedranno misteriosamente calare a poco a poco la loro produzione di latte, l’efficacia dei loro bambini al seno e la durata dei loro allattamenti.
Se stai allattando e hai dei dubbi riguardo all’uso del ciuccio o stai notando un calo nella produzione o nella crescita del bambino, puoi rivolgerti a una consulente professionale in allattamento materno per una consulenza.