Qualcuno volò sul nido del vegan – III parte

Qualcuno volò sul nido del vegan - III parte

QUARTO GIORNO

Digiuno, via di salute

Non si chiamava così quel libro? Che non ho mai avuto voglia di leggere? Adesso rimpiango di non averlo fatto… forse avrei una visione più positiva delle cose, invece di quella attuale: sdoppiata per la fame. Devo aspettare la fine della mattinata, ovvero, mi hanno detto, le una e trenta, prima di sapere se oggi tocca a me. Nel frattempo, niente cibo né acqua (sì ma qualche sorsetto ogni tanto ne ho bevuto, tanto ho la bocca come carta assorbente e nello stomaco l’acqua nemmeno ci arriva).

Passo la mattinata a sciabattare per il corridoio in preda alle allucinazioni, con il cervello che si rifiuta di funzionare, a parte ripetermi all’infinito un ritornello di una canzone di Battiato che mi si è incollata in mente, chissà perché.

Ogni tanto do una sciacquata alle mie lenticchie ormai ben cicciate, almeno quelle possono bere, beate loro!

Spero che ritorni presto l’era del cinghiale bianco…

Tantalo mi fa un baffo

A mezzogiorno arriva il pranzo, con disposizione di non toccarlo fino a nuovo ordine. Infatti, nella mia condizione “in panchina”, potrei essere chiamata in sala operatoria fino all’ultimo. Fra le nebbie del digiuno mi perdo in un’oziosa fantasia su un nuovo possibile film di Fantozzi, già vedo la scena: al mattino, Fantozzi e gli altri pazienti allineati su una riga di partenza all’inizio del corridoio della corsia, tesi sulle loro stampelle e sedie a rotelle, poi la caposala spara un colpo di pistola e via! Parte la grande corsa, senza esclusione di colpi bassi, verso la fine del corridoio, la sala operatoria. Solo i più duri e spietati conquisteranno l’ambito traguardo.

Sono così assorta, che quasi ignoro il vassoio carico di minestrone di riso, pomodori e fagiolini. Tantalo mi fa un baffo! Ormai sono al di là del bene e del male, libera dalle catene dei sensi, sono un puro spirito prossimo alla bilocazione, alla levitazione e quant’altro la mia mente ormai misticamente rapita riesce ad immaginare.

Comincio a credere sul serio ai digiuni, anche perché, devo ammetterlo, il raffreddore/mal di gola incipiente che avevo fino a ieri è scomparso come per magia.

Quell’oscuro oggetto del desiderio

All’una e mezza passa un medico, ed io spero che finalmente mi faccia sapere di che morte devo morire… Invece no, dalla sala operatoria non si sbilanciano ancora, e il medico in realtà è venuto solo per chiedermi di nuovo del mio schiaccianoci (è la terza volta).

E’ un modello divertente e molto “ecologico”, consiste in una mela di legno con un foro rotondo al centro in cui si piazza una noce, che viene poi schiacciata da una vite in legno che va fatta girare a mano.

Gli è piaciuto proprio, si è già fatto dire cos’è e spiegare come funziona, ora vuole sapere dove si compra. Comincio a fantasticare di regalarglielo…

In conclusione della chiacchierata il medico mi informa che dovrò aspettare ancora fino alle due e mezza, e mi lascia là con lo stomaco ancora più piccolo della più piccola delle mie noci.

L’età dell’oro

È sera (cioè le 18.30) e come previsto non mi sono operata. Sto finendo di consumare la mia cena, che è stata preceduta a sole due ore di distanza dal mio pranzo, che a sua volta ha seguito a ruota la colazione. Insomma dalle 14.30 alle 19.00 in pratica non ho fatto che mangiare – quasi un pranzo di nozze!

Sto entrando in un ciclo fortunato, ricco di verdure e legumi, e con i miei “ritocchi” i pranzi stanno diventando quasi come quelli di casa.

Il mio comodino e parte del tavolo traboccano di sempre nuove aggiunte al capitale originario di frutta: aranci, noci, mandarini, kiwi, carote crude, sedano…

Il mio arredo è stato completato dal vaso del sedano, dal guscio di noce di cocco con le noci dentro e dal bricco dell’olio extravergine spremuto a freddo.

Ormai sono diventata un mito in tutto il reparto, tutti sanno che nascondo roba nello stipetto delle scarpe, e viene gente anche da lontano per ammirare i progressi dei miei germogli di lenticchie.

SESTO GIORNO

Piccole formalità

Sono alla fine di un altro giorno di semidigiuno, perché stamattina sono stata di nuovo “in riserva” (e ovviamente, come previsto, non mi sono operata).

Quindi, ieri sera brodazzina, poi oggi digiuno fino alle 14.30 e poi di nuovo colazione + pranzo in breve successione. La novità è che stasera alle sei ho di nuovo la brodazza perché domani quasi certamente mi operano: infatti sono stata promossa da riserva a Titolare (manco avessi un libretto di risparmio!), il che vuol dire che ho buone probabilità e un posto prenotato in sala chirurgica.

Comunque, poiché il mio intervento è dei più “facili” (sono previste solo due ore), verrò per ultima. Speriamo non si vada ai tempi supplementari!

Un’altra notizia confortante è che nel mio caso non sarà necessaria la terapia intensiva, e quindi non devo temere per il mio nido. Riavrò il mio letto!

La sera ritorna un’anestesista, perché quella che mi aveva già intervistato l’altroieri non mi aveva fatto firmare il foglio di consenso ad una eventuale trasfusione. Se non firmo – minaccia – niente intervento; tuttavia, mi assicura, è solo UNA PURA FORMALITA’, perché nel mio caso è sicurissimo che non ce ne sarà alcun bisogno.

Potenza della logica ospedaliera!

Poco dopo (ho finito di mangiare da appena mezz’ora) compare un’altra infermiera con un clistere. Un’altra formalità.

Eh no, questo poi no!

Dopo essere andata agevolmente di corpo stamattina, come ogni giorno, e con una giornata di digiuno alle spalle e la colazione-pranzo-cena ancora tutta nello stomaco, cosa pretendono di tirare fuori dal mio intestino?

Dichiaro con cortesia ma fermezza che non ho intenzione di farlo ma bensì di andare in bagno, come faccio sempre, da me domattina con i miei tempi. Le infermiere se ne vanno via confuse e interdette.

L’intestino è mio e lo gestisco io!!!!

OTTAVO GIORNO

Un pranzetto “leggero”

Sono seduta sul letto, alquanto ammaccata, e in attesa del mio primo pasto da due giorni a questa parte. Ieri sono stata operata e per 24 ore mangiare è stato l’ultimo dei miei pensieri. Per asportare l’angioma che avevo in un osso hanno dovuto fare un bel taglio, il che mi ha regalato un numero imprecisato di punti e graffette e un drenaggio che parte dal bozzolo di bende di cui mi hanno fregiato. Poi c’è stata la nausea, il mal di testa ed altre piacevolezze dovute alle zozzerie dell’anestesia totale, e come se non bastasse ho appreso di aver parlato in continuazione dopo l’intervento, mi dicono che ho sussurrato parole dolci a mio marito (incredibile…), che ho fatto ripetutamente le mie presentazioni agli astanti, e che ho esortato a lungo la platea di “non fumare”… chissà che cosa mai mi sono lasciata scappare dei miei numerosi segreti, io non ricordo un accidente se non che aprivo solo un occhio per volta perché tutti e due insieme era troppo faticoso.

Va be’, non ne parliamo più. Oggi mi sento molto meglio, sto seduta e ho il mio bravo vassoio davanti, pronta a riprendere il discorso interrotto con le mie verdure. Scopro i piatti: Pollo e purè?!?!?

Chiedo spiegazioni all’ausiliario, che insiste: questo è ciò che mi è stato riservato per oggi, evidentemente, si giustifica a braccio, devo mangiare queste cose “perché devo stare leggera e le verdure sono più pesanti” (sic!).

Io non mollo e insisto, l’ausiliario scompare fuori campo e sento una discussione animata: “Ma allora questo per chi è?” “Eh ma allora me lo potevi dire prima!…” e poi magicamente il pranzo carnivoro viene rapidamente asportato e il mio vero pranzo mi compare davanti, con tanto di fagioli, spinaci e pastasciutta. Tanto per mantenere il punto, l’ausiliario insiste perché io eviti di mangiare “almeno la pasta”, alla quale richiesta io, contemplando l’ammasso biancastro nella ciotola, acconsento senza fatica, facendo tutti contenti.

UNDICESIMO GIORNO

Gran finale e conclusione filosofica

È sera; sto godendomi le prime ore di quiete a casa mia, riprendendo possesso dei miei beni (gastronomici e non). Ho davanti un’enorme ciotola in coccio stracolma di minestrone e legumi con dentro proprio TUTTO, e nonostante le ammaccature doloranti e i postumi dell’anestesia, mi sento a meraviglia e posso finalmente fare un bilancio, che mi rende molto fiera.

Nessuno dimenticherà mai quella paziente che aveva sul tavolino un praticello di lenticchie germoglianti, e che aveva inventato il modo di agganciare la sacca del drenaggio alla cinta della vestaglia per andarsene in giro per i corridoi, invece di restare incatenata alla testiera del letto come tutti gli altri.

Sono passata per pazza in reparto, nessuno dei miei amici ha mai avuto difficoltà a trovarmi quando veniva in visita: il primo a cui domandava diceva: “ah, sì, QUELLA” e indicava senza esitazione la mia ubicazione. Questo fatto lo trovo molto positivo. Sono riuscita a sfuggire fra le maglie dell’ingranaggio stritola-identità dell’istituzione ospedaliera, a restare nonostante tutto una persona. Ho subito, certo, come chiunque si trovi in una condizione di vulnerabilità e debolezza come quella di “paziente”; ma sono riuscita a ridurre al minimo i danni e le sofferenze, specialmente quelle alla mia dignità di persona. Ho scoperto che è possibile avere potere contrattuale anche come paziente ospedaliero, essere fermi e cortesi e ottenere rispetto, almeno nella maggior parte dei casi. Le mie strategie di sopravvivenza psichica sono state efficaci: rifiutarmi di indossare la camicia da notte e andare in giro vestita finché non mi sono veramente messa a letto per l’operazione; evitare accuratamente di guardare la TV; disciplinarmi con un uso sistematico della musica, lo yoga, la cura del mio corpo, le piccole passeggiate nei corridoi, la contemplazione delle albe, le letture; essere d’aiuto per quanto potevo a chi stava peggio di me lì dentro; e la lotta per un buon cibo, che è stata forse, vista dall’esterno, esagerata date le circostanze, ma che ha assunto per me un grande valore di autodifesa, cura di me stessa, pretesa di rispetto della mia volontà e identità.

Persino lì dentro, sono riuscita ad avere al 90% il cibo di cui avevo bisogno. Sono riuscita a rifiutare o modificare le pratiche routinarie infermieristiche che ritenevo superflue, senza tuttavia mettermi in aperto conflitto con il personale. Sono riuscita a ricordarmi e a formulare ai medici tutte le domande che mi premeva di fare. Ho lasciato credo un buon ricordo di me, anche se probabilmente un po’ folcloristico e con un certo alone da rompiscatole. Ho imparato l’assertività, strumento raro e prezioso nelle relazioni umane.

Grazie anche alla cultura e alla coscienza vegan che ho assorbito da tutti gli amici che hanno come me intrapreso questa avventura ben più che alimentare, mi sono sentita più forte e consapevole e sono cresciuta: scoprendo che anche attraverso esperienze come queste si può imparare e anche, perfino, a volte sorridere.

Antonella Sagone, 30 gennaio 2022

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