Inserire al nido il bambino allattato – parte I

Inserire al nido il bambino allattato - Parte I

Per molti bambini arriva il momento dell’inserimento al nido.

Che abbia pochi mesi oppure qualche anno, se è allattato al seno la madre deve confrontarsi con l’istituzione anche riguardo a questo aspetto.

In questo articolo in due parti tratteremo sia gli aspetti pratici del bambino ancora nella fase di allattamento esclusivo, che ha bisogno di avere a disposizione anche al nido il latte della mamma, sia gli aspetti relazionali e culturali che vanno a volte ad influenzare il processo di ambientamento, quando il bambino è allattato al seno.

La devastante “teoria dell’abitudine”

Quando un genitore effettua un colloquio preliminare per l’inserimento al nido, le educatrici in genere raccolgono una serie di informazioni sulle “abitudini” del bambino, in particolare riguardo all’alimentazione, al sonno e al modo in cui vengono calmati quando piangono o sono agitati.

Tutto in genere fila abbastanza liscio finché non emerge l’informazione che il bimbo è allattato: allora scatta spesso il panico!

Ecco una risorsa che le educatrici non possono utilizzare: la mammella. Come faranno allora a calmare il bambino, addormentarlo, nutrirlo se è “abituato” a una modalità che a loro è preclusa?

Questo falso problema è spesso vissuto in modo drammatico da genitori e insegnanti, solamente perché sono vittime di un pregiudizio, un mito, una teoria del tutto infondata: quella dell’abitudine.

Secondo questa tesi, i bambini si comportano in un certo modo, hanno certe reazioni e determinate aspettative, semplicemente perché sono stati abituati così.

Le madri conoscono bene questa musica, perché l’hanno ascoltata fin dalle prime ore di vita del loro bebè… “Se lo prendi in braccio appena piange lo abituerai a piangere per ogni capriccio” – Mettilo da subito a dormire nel suo lettino, così prende una buona abitudine – Se è poco socievole è colpa tua che lo hai abituato a stare sempre con te” e così via in una serie infinita di critiche al modo di nutrire, addormentare, coccolare e crescere i propri figli, e di fantasiose affermazioni sulle “conseguenze” irreversibili di certi “errori”.

La teoria dell’abitudine rinnega un aspetto fondamentale, e reale, dei bambini, e cioè che essi abbiano dei bisogni essenziali, innati, naturali, i quali continuano ad esistere a prescindere dal modo in cui si risponde ad essi o persino se vengano o meno soddisfatti: il bisogno di contatto, connessione, contenimento, sicurezza, relazione, amore incondizionato.

Allora abbiamo questo bimbo felice che fino a ieri è stato accudito dalla mamma e dal papà in determinati modi, e ora dovrà invece fare esperienza e relazionarsi a persone diverse, con modalità diverse di interagire e di rispondere ai suoi bisogni. Ma il problema non è trovare al nido le stesse modalità che vigono a casa: è trovare persone sensibili e rispettose che ascoltino e accolgano le emozioni del bambino, che comprendano i suoi bisogni essenziali e che rispondano come meglio sanno fare a questi bisogni.

Questi caregiver che vanno nel panico appena vengono a sapere che il bambino è allattato sono in genere abituati a sedare bambini piangenti con il ciuccio, e pensano di poterli calmare solo nel modo in cui “sono abituati”, tentando cioè di fare le vice-mamme. “Se la mamma allatta, io come faccio? non posso dargli la tetta” – pensano… non capendo che ogni relazione è a sé e va costruita: le maestre devono costruire la loro relazione e legame con il bambino in modo autonomo e in quanto relazione bambino/educatrice, non bambino/vice-mamma; non possono salire sulle spalle della mamma per creare un legame; sarebbe una pessima idea anche se il bambino non fosse allattato. Non è questione di sfruttare le abitudini del bambino, ma di esserci. Di disponibilità anche affettiva. I bambini questo lo sentono, e se questa disponibilità c’è, imparano a rapportarsi in modo specifico a ciascun adulto, coccole con la maestra, tetta con la mamma. Se invece questa capacità non c’è, allora difficilmente il bambino si adatta, tetta o non tetta.

Il bambino va gestito a casa come a scuola, in modo che prenda le abitudini giuste?

Ecco spuntare dunque, come corollario della teoria dell’abitudine, la richiesta, che spesso viene fatta ai genitori, di instaurare a casa le stesse routine che vengono messe in atto al nido o alla scuola dell’infanzia, in modo che al bambino “si abitui” e si senta a suo agio.

Questa ipotesi è smentita dai fatti, non solo perché appunto il bambino in realtà non ha abitudini ma bisogni, ma anche perché persino se per un caso le modalità di cura a casa e a scuola fossero identiche, non lo è il contesto in cui ciò avviene: il nido è un luogo differente, le tate non sono la mamma e quindi c’è comunque una fase di necessario ambientamento che il bambino deve compiere fino a quando questo nuovo contesto non gli divenga familiare.

Tuttavia, i genitori si sentono fare richieste che li mettono in crisi e li destabilizzano fortemente, non solo perché si chiede loro di abbandonare modi consolidati e funzionali di rapportarsi al loro bambino, ma anche per il sottile messaggio di critica, come se questi modi fossero di per sé inappropriati e causa di problemi.

Così a volte i genitori provano a fare come richiesto, e questi esperimenti hanno generalmente risultati disastrosi.

Ma vediamo alcune di queste frequenti richieste.

“Dovete svezzarlo dal seno, o non saprà mai staccarsi dalla mamma”

Questa decisione a volte viene sollecitata ai genitori persino prima che il bambino debba essere inserito, suggerendo di svezzare in anticipo il bambino in modo che al momento dell’inserimento non abbia più “bisogno” della mamma. Quale ingenua aspettativa! I bambini hanno comunque bisogno della mamma, che siano allattati o no; con santa pazienza, dolcezza e disponibilità le educatrici dovranno trovare il loro modo di calmarli e accudirli.

A volte questa richiesta è articolata più finemente, chiedendo alla mamma di incominciare a non associare più la poppata a certe situazioni, per esempio al momento di addormentare il bimbo, oppure come modo per calmarlo quando piange.

Insomma, la mamma dovrebbe rinunciare al modo previsto dalla natura, quello che ha la massima efficacia e il massimo di benefici di salute e benessere per il suo bambino, e adottare sistemi meno funzionali e benefici, solo per livellarsi alle risorse (inevitabilmente limitate) delle tate che lo accudiranno in futuro… Riuscite a immaginare l’assurdità di questo progetto, e come sia miseramente destinato a fallire? Il bambino non si capacita del motivo per cui la mamma sembra essersi dimenticata di avere un seno, e cerchi di addormentarlo o consolarlo cullandolo o in altri modi insulsi, quando ha le tette lì a portata! E anche la mamma, dentro di sé, trova assurda la situazione, per cui il risultato è o una famiglia infelice, o la capitolazione e il ritorno al sistema che funziona (il seno), ma accompagnato da un senso di inadeguatezza e fallimento del tutto ingiusto e ingiustificato.

Per concludere, suggerire di togliere o ridurre l’apporto di latte materno in un bambino di pochi mesi o anni significa privarlo di un fondamentale beneficio di salute, e quindi è una richiesta che non dovrebbe mai essere fatta nemmeno per sbaglio. Soprattutto perché andrà al nido il seno non va tolto! oltre ad essere per il bambino un sostegno emotivo, che attenua il distacco e facilità il ricongiungimento, è un’enorme protezione immunitaria contro l’impatto di tutti i germi che verranno a contatto con lui.

“Dovete insegnargli a prendere sonno senza poppare”

La critica, nemmeno tanto velata, è di aver creato una sorta di “riflesso condizionato” facendo associare al sonno la poppata al seno (che per i più è da considerarsi un “pasto”, una faccenda esclusivamente nutritiva). “Dovete disassociare il sonno dal seno”, ho sentito dire di recente con un orrido neologismo. Altre varianti sono: “Permettetegli di scoprire che può tranquillizzarsi e addormentarsi da solo; altrimenti avrà per sempre bisogno del seno per dormire”; oppure “È un errore associare la poppata al sonno, perché lo porterà a voler mangiare quando invece ha bisogno di dormire”.

Ecco che i genitori diventano la rovina dei loro figli, trascinandoli verso la bulimia, l’obesità, e soprattutto forzandoli nella dolce prigione di un’eterna dipendenza dalla mamma!

Queste persone sono evidentemente vittime di una serie di pregiudizi. Le loro critiche devono essere dai genitori lette non come accuse di inadeguatezza genitoriale, ma di inadeguatezza e ignoranza di chi le ha pronunciate. In particolare, fanno trasparire le seguenti (errate) convinzioni:

– che allattare sia solo un fatto alimentare (ignorando tutto l’aspetto non nutritivo e la parte emozionale, di contatto e di intimità, che è necessaria al bambino per sentirsi sicuro e lasciarsi andare al sonno);

– che semplicemente togliendo al bambino ciò di cui ha bisogno (non necessariamente il seno, ma la suzione, le coccole, la presenza umana) egli si adatterà alla nuova “abitudine” e anzi ne trarrà giovamento;

– che i bambini non abbiano una loro congenita spinta evolutiva, uno slancio a crescere, maturare, superare i propri limiti, abbandonare ciò che non serve più via via che aumenta la loro competenza e mutano i loro bisogni;

– che la dipendenza affettiva dagli altri (cioè amare ed essere amato, avere qualcuno su cui contare) sia una brutta debolezza da superare al più presto.

Alcuni spunti per controbattere questi pregiudizi, specialmente riguardo all’allattamento di bambini più grandicelli, sono raccolti in questo articolo.

Penso che non sia necessario commentare ulteriormente tali preconcetti, la cosa importante è che i genitori restino sereni e non si facciano turbare da critiche e cattivi consigli.

“Dovete abituarlo al ciuccio”

Quando il personale del nido chiede ai genitori di dotare il bambino di ciuccio, non si aspetta di ricevere la risposta “mio figlio non lo usa”. Sembra impensabile, data la diffusione capillare di questo attrezzo, che lo ha addirittura fatto ad assurgere ad icona stessa della primissima infanzia!

Eppure, i bambini allattati esclusivamente al seno, e soprattutto quelli allattati a richiesta, anche più grandicelli, possono tranquillamente non aver mai avuto bisogno del ciuccio e non sapere nemmeno come usarlo.

Sappiamo inoltre che specie nei primi mesi il ciuccio è un interferente e può causare seri problemi anche all’efficacia della suzione al seno, portando a un declino della produzione di latte specialmente nel periodo dell’allattamento esclusivo. Di contro, un bambino più grandicello può davvero non sapere come succhiare dal ciuccio, che richiede una tecnica di suzione diversissima da quella del seno, e finisce per usarlo come stimolatore gengivale o masticarlo, tra l’altro con seri rischi di romperlo e di inalarne dei pezzi, se ha già dei dentini.

Certo: la suzione ha un effetto calmante, e in mancanza di ogni altra risorsa il ciuccio può diventare un rifugio e una forma di dipendenza che colma una mancanza oggettiva, quella della mamma. Però causa ulteriori problemi, non da meno il fatto che poi occorre gestire una richiesta del ciuccio a casa anche in contesti diversi da quello del nido. Acconsentire al ciuccio anche fuori della scuola inevitabilmente riduce la richiesta di suzione non nutritiva al seno, che è quella che più di ogni altro fattore mantiene l’allattamento dopo i primi mesi.

Una piccola nota a margine: i bambini da che mondo è mondo e anche per millenni prima dell’invenzione del ciuccio si consolavano succhiandosi le dita. Nonostante il forte pregiudizio contro questa “abitudine” (odio la parola) esistono studi che mostrano come non sia vero che il ciuccio deformi il palato meno delle dita, anzi spesso è vero il contrario… quindi certo, può essere una strategia il ciuccio, ma non è il solo modo di soddisfare il bisogno di suzione.

A volte le educatrici, in difficoltà a calmare un bambino che non è abituato al ciuccio come mezzo di consolazione, affermano che la causa di tutto è il bisogno di suzione, che avendo l’abitudine del seno non può essere soddisfatto da loro… questa spiegazione mi sembra riduttiva e focalizzata sull’oggetto, o sull’atto in sé, del succhiare, dimenticando che per un bimbo di pochi mesi, o anche di un anno e più, la suzione non è qualcosa di separato dalla persona sulla quale si effettua questa azione. Alla fine, forse c’è solo riluttanza da parte del personale del nido ad accettare la semplice verità che un bimbo di pochi mesi possa faticare per molto tempo prima di superare la mancanza della mamma, e che è naturale che soffra e le manchi: a prescindere da quale oggetto sia abituato a succhiare.

Altre implicazioni

Il tema della gestione al nido del bambino allattato non si esaurisce qui. Vi sono molti altri aspetti, considerazioni e informazioni che possono essere utili ai genitori per gestire il loro rapporto con il personale scolastico riguardo a questo tema.

Nel prossimo articolo tratteremo la gestione del latte materno tirato che viene fornito al nido per nutrire il bambino, e altri aspetti sociali e culturali, ma soprattutto offriremo spunti pratici per gestire le controversie e le obiezioni che troppo spesso le madri che allattano si trovano di fronte quando si approcciano al nido o alla scuola dell’infanzia.

Se avete difficoltà con l’inserimento al nido del vostro bambino allattato, potete rivolgervi a una consulente professionale in allattamento materno per ricevere informazioni e sostegno.

Antonella Sagone, 18 gennaio 2024

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